L’induzione del parto

Una donna incinta è “in attesa”, così ci si esprime parlando di lei: significa che la sua vita resta sospesa per il tempo necessario a raggiungere un traguardo, che chiude l’esperienza di contenere e proteggere dentro di sè il cucciolo umano. 40 settimane, lunghe, in cui il pensiero cambia obiettivo, e più ci si avvicina al parto più diventa costante, focalizzato su un faccino di cui si immaginano mille versioni.

Ma le settimane possono essere anche di meno, o di più…41, 41 e un giorno, e due, e tre, e uffaaaa!!! Mica per i giorni che passano, ma per la smitragliata di telefonate quotidiane per sapere se “è nato o no (e perchè nooo?”). “Quando ero incinta io facevano le iniezioni il giorno dopo ” (le 40, o anche 38 o 39, in base alle esigenze del ginecologo); “il mio ginecologo mi aveva invece ricoverata ben prima, e messo la flebo, e rotto il sacco, e poi spinto sulla pancia…”;  ” a me l’ostetrica aveva detto di bere una bella dose di olio di ricino, poi mi ha fatto delle iniezioni e…via”; “ma sarà mica pericoloso? Sei andata a farti vedere? Mah”…

E dove la mettiamo l’ansia di chi segue la gravidanza? Una donna deve fare i conti non solo con la propria, ma pure con quella altrui…

Vediamo un pò: quanto deve durare una gravidanza? Esattamente nessuno lo potrà predire; per di più numerosi studi hanno indagato, e continuano a farlo, i reali fattori coinvolti nella sua durata. Uno di questi ha rilevato una correlazione con i geni paterni (*),  e vai a sapere quanti altri elementi influenzano questo meccanismo così complesso come lo scatenarsi del travaglio, certamente di natura fisica ma anche psichica e socio-culturale.

In ogni caso, la ricerca suggerisce che la placenta, organo destinato alla nutrizione e ossigenazione fetale, ad un certo punto invecchia, e può perdere colpi nella sua funzione. Indicativamente, si ritiene ormai che a 41 settimane di gravidanza sia prudente iniziare a controllare sia le condizioni del feto (attraverso l’analisi del grafico di registrazione del suo battito cardiaco), sia la quantità di liquido amniotico ancora presente in utero, indicativa di una condizione ancora normale o, se ridotta, di una situazione che va monitorata con più attenzione e frequenza. Se tutti i parametri sono nella norma, si può attendere fino a 41 settimane e sei giorni, dopodichè è indicato il ricovero in ospedale per procedere con il tentativo di induzione del travaglio attraverso varie modalità e sotto stretto controllo, più frequentemente tramite l’inserimento in vagina di prostaglandine in gel o veicolate da una “piastrina”. Le prostaglandine sono sostanze naturalmente prodotte dall’organismo umano, e quelle utilizzate per questo scopo possiedono la capacità di far ammorbidire quella parte di utero che dovrà dilatarsi, stimolando in seguito le contrazioni del travaglio.

Attualmente si sta utilizzando con una certa frequenza la stimolazione meccanica tramite un doppio palloncino, o dispositivo di Cook, molto simile a un catetere (tubicino normalmente usato per svuotare la vescica urinaria), che inserito nel canale del collo uterino e gonfiato stimola meccanicamente la maturazione del tessuto favorendo la comparsa di contrazioni o la riuscita dell’eventuale induzione, con buoni risultati e ridotti effetti collaterali.

cook

Altri sistemi per ottenere lo stesso scopo sono allo studio, farmacologici e non. Tra i metodi naturali indagati, l’unico per il quale è stata dimostrata un’efficacia misurabile è la stimolazione dei capezzoli, che pare incremementare la possibilità di insorgenza del travaglio nelle 72 ore seguenti, riducendo inoltre la perdita di sangue dopo il parto.

Non sempre la stimolazione funziona, perchè la risposta dipende da una serie di elementi, soprattutto dalle condizioni in cui si trova il collo dell’utero in quel momento e dalla posizione della testa fetale. In assenza di risposta, si ricorre al taglio cesareo a distanza di tempo variabile, a seconda delle situazioni.

L’induzione del travaglio, al di fuori del protrarsi della gravidanza, va riservata a condizioni ben precise e selezionate. Uno studio (**) pubblicato sulla rivista Acta obstetricia et gynecologica scandinavica dimostra che l’induzione del travaglio in assenza di indicazioni materne o fetali aumenta il rischio di parto cesareo e di complicazioni post-parto, oltre che di  complicanze neonatali.

Un gruppo di ricerca tutto femminile condotto all’università di Adelaide ha preso in considerazione 28.626 donne e, per analizzare le complicanze associate al parto, le ha suddivise in tre gruppi a seconda che avessero avuto un travaglio spontaneo, un’induzione di travaglio per indicazioni riconosciute e per indicazioni non riconosciute. Quest’ultima condizione si è associata a un rischio di taglio cesareo aumentato del 67% rispetto al travaglio spontaneo e ha comportato anche un incremento della probabilità che il bambino dovesse essere ricoverato nell’unità di terapia intensiva neonatale. Sono dati importanti per riflettere sulla pratica crescente di induzione del travaglio che si registra in molti paesi del mondo.

Ad ogni buon conto, se una donna ha cura di sè, astenendosi da attività lavorative stressanti o dannose, evita fumo e alcool, conduce una vita sana dal punto di vista alimentare e ricca di relazioni appaganti, pratica una moderata e costante attività fisica,  possibilmente non interrompendo l’attività sessuale durante tutta la gravidanza (il liquido seminale è ricco di prostaglandine…), cercando di trovare spazi intimi per entrare nella dimensione dell’evento-parto, riposando quando il corpo lo richiede, si predispone al meglio per portare avanti e concludere con serenità e senza intoppi il suo percorso verso un’esperienza di parto intensa, coinvolgente e che non necessita di interventi esterni.


(*) http://italiasalute.leonardo.it/news.asp?ID=4190

(**) Acta Obstet Gynecol Scand. 2012 Feb; 91(2):198-203
Fonte: Ginecologia33 (marzo-2012)

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