Cambiare la nascita per cambiare il mondo

Potrebbe sembrare troppo ambizioso: partire dalla nascita di un individuo per cambiare lo scenario mondiale…invece no. Proviamo a rifletterci sopra: le neuroscienze ci permettono di studiare con grande precisione fenomeni prima inarrivabili, come le funzioni cerebrali in particolari condizioni, o le ripercussioni sulla salute fisica e psichica umana di eventi apparentemente innocui, mettendo in relazione tra loro elementi che fino a pochi anni fa ai nostri occhi parevano del tutto estranei gli uni agli altri. Attualmente molte condizioni che si presentano con crescente e allarmante frequenza durante l’infanzia e l’adolescenza (deficit di attenzione, allergie, disturbi alimentari per fare soltanto alcuni esempi), sono oggetto di indagine per quanto riguarda la relazione possibile con eventi o sostanze i cui effetti si sono verificati durante il periodo perinatale, cioè quello precedente la nascita, legato al parto o alla fase neonatale. Numerose ricerche si stano orientando in questa direzione, in tutto il pianeta. Come pensare quindi che un momento dell’esistenza umana così intenso e cruciale per la stessa sopravvivenza della specie si possa trattare con superficialità, come un puro fatto di pertinenza sanitaria, senza considerare i possibili effetti a breve e lungo termine di una formazione parziale del personale di assistenza, di una politica spersonalizzante, che mira prevalentemente al risparmio economico limitando il personale nelle sale parto, nei nidi, negli ambulatori e nei reparti di ostetricia, costringendo a comprimere il tempo da trascorrere con donne/coppie/neonati? Il fattore tempo ha un’importanza strategica nella realizzazione di interventi efficaci a sostegno di maternità e genitorialità responsabili, di pratiche assistenziali al contempo rigorose e rispettose dell’individualità e dei desideri delle donne che stanno per diventare madri, degli uomini prossimi alla paternità e dei bambini che si affacciano alla vita e saranno gli adulti di domani. Intrattenere una relazione di cura con una donna o una coppia in procinto di avere un bimbo significa fornire non solo competenza tecnica, ma anche sicuro e forte sostegno emotivo. Ciò richiede professionalità e tempo. Le politiche sociali e sanitarie che non tengono conto di questi aspetti, non soltanto compromettono la sicurezza delle situazioni connesse con la nascita, ma preparano il campo all’intervento di persone sprovviste di formazione e competenze appropriate, che si inseriscono nei percorsi di vita delle persone, ostentando capacità che non possiedono, per trarne vantaggio economico. Fino a quando ci ostineremo a non capire, non smetterà di essere attuale un libro rivoluzionario, “Per una nascita senza violenza”, scritto da Frédérick Leboyer, un ginecologo che ha imparato ad interrogarsi su come veniva (e viene!) trattata la nascita nei contesti medicalizzati, pubblicato per la prima volta nel 1974: una dura riflessione, ma anche un’analisi poetica di come venire al mondo è e dovrebbe essere.

Un libro per Natale : “In nome della madre”

   “In nome della madre s’inaugura la vita”                                                                  (Erri De Luca)

E’ un librino di 80 pagine, “In nome della madre”, scarno e semplice nella sua veste editoriale, con una emme in carattere ebraico sulla copertina, una “emme incinta” come la definisce l’autore; poi si inizia a leggere, e una ventata di musica in forma di parole investe la mente. Una donna come me si chiede come avrà fatto De Luca, un uomo, ad esprimere in maniera così intensa certe emozioni: avrà chiesto ad una donna-madre di spiegargliele o avrà provato ad immedesimarsi nella sua pelle e nel suo cervello? E’ dunque una riflessione sull’attesa, sull’ “aspettare un bimbo” che dalla notte dei tempi investe il corpo e la mente delle donne, ma in questo caso la donna è Maria, Miriàm, la Madre per eccellenza della tradizione biblica, la donna che ha concepito senza intervento umano a soli quindici anni (“Tu sei pasta cresciuta in me senza lievito d’uomo”), ha atteso il figlio e lo ha partorito in solitudine, forte soltanto della sapienza millenaria del suo corpo. Nella mia veste di ostetrica, come poteva non intrigarmi proprio il suo percorso di maternità, tantopiù non essendovi traccia storica di intervento di “levatrice” nella sua vicenda? Accanto a lei Giuseppe, Iosef, dolce e protettivo, che sa sostenerla nell’immane progetto a cui è destinata stando in disparte. E’ coraggiosa, la ragazza: “Signore, la tua frase rivolta a nostra madre Eva: in sforzo farai nascere i figli, non mi spaventa…Ce ne vorrà molto per staccarmi il bambino. Stiamo così bene in due in un corpo solo”. E ancora, una riflessione che ha attraversato la mente di ogni donna-madre o che sta per diventarlo : “Occupa tutto il mio spazio, non solo quello del grembo. Sta nei miei pensieri, nel mio respiro, odora il mondo attraverso il mio naso. Sta in tutte le fibre del mio corpo. Quando uscirà mi svuoterà, mi lascerà vuota come un guscio di noce. Vorrei che non nascesse mai”. Umanissima nelle sue reazioni, nei sentimenti, riesce persino a tranquillizzare sua madre: “Sarà la cosa più facile del mondo, madre mia… Una vita si annida, cresce e poi trova l’uscita. Basterò a me stessa, madre mia”. La gravidanza prosegue e Maria è costretta a intraprendere un lungo viaggio, Giuseppe al suo fianco; la sorte gli riserva una stalla per riparo, e lì si svolge il parto: “Sudavo…una contrazione e un rilassamento, spinta, rincorsa, spinta”, fino a quando appare la testolina, “l’ho avuta tra le mani, mi sono commossa, mi è scappato un singhiozzo…”.

Una nascita è qualcosa di misterioso e spettacolare, non può lasciare indifferenti, ha in sé tutta la magia della vita e il corpo di una donna è fatto per questo: “Il mio corpo fa da solo, esegue. Non l’ho istruito io”, è così che Maria riflette su ciò che è accaduto ed è così che bisognerebbe trattare un corpo di donna che sta per dare alla luce, con rispetto per la sua capacità, che esprime tutta la potenza del creato. Poi sopraggiunge la consapevolezza che questo figlio non sarà come tutti gli altri; Maria lo sapeva fin dall’inizio, ma ora arriva la resa dei conti: “Qui dentro siamo solo noi, un calore di bestie ci avvolge e noi siamo al riparo dal mondo fino all’alba. Poi entreranno e non sarai più mio”. In quel momento emerge potente l’umanità di Maria, il suo bisogno straziante che quel bambino sia soltanto uno fra tanti, “un cucciolo qualunque, anche un poco stupido, svogliato…”; perché se è vero che il suo destino è segnato, allora irrompe la consapevolezza che la vita glielo strapperà via…“Signore del mondo…fà solo che questo bambino sia nessuno nella tua storia…Sia per te un progetto accantonato, uno dei tuoi pensieri usciti di memoria”…

E’ assalita dal dubbio e dal terrore, dal pentimento bruciante di aver peccato di orgoglio nel gioire del fatto che proprio lei era stata prescelta per raggiungere un obiettivo sovrumano, poi ha un ripensamento, sa di dover tenere fede ad un patto, ridimensiona la sua ansia e chiede all’Immenso che almeno venga lasciato libero di vivere la sua vita fino ai trent’anni: “Ti ho promesso, prometti”. Alla fine, lo straniamento che prende una madre dopo aver generato la sua creatura ha a che fare con la malinconia: chi è passata attraverso questa esperienza lo conosce bene, è quello che fa versare qualche lacrima e non si sa bene perché. E’ lo stesso che fa dire a Maria “Che vuoto mi hai lasciato, che spazio inutile dentro di me deve imparare a chiudersi. Il mio corpo ha perso il centro, da adesso in poi noi siamo due staccati, che possono abbracciarsi e mai tornare una persona sola”. Ma per una donna qualunque, quello è anche il momento della vita che più somiglia alla felicità…