Il parto dell’ostetrica

Già, pure le ostetriche fanno figli, dunque raggiungono il fatidico momento in cui partorirli…Ma come si rapporta una donna che aiuta le altre nel loro percorso per diventare madri con la gravidanza, il travaglio (con le doglie!), l’allattamento e l’accudimento del neonato? Complessa, la faccenda: quando frequentavo il corso di studi formativi, in sala parto osservavo la gestualità delle ostetriche e delle donne, ascoltavo voci, suoni, incitamenti, grida, pianti, richieste di aiuto…e confesso che vi intravedevo parecchie note stonate. C’è voluto tempo per farmi un’idea delle cose: mi piaceva ciò a cui assistevo? No. Non mi garbava affatto sentir intimare alle donne cosa dovevano o non dovevano fare, vederle visitare ogni momento in condizioni di assenza totale di intimità e comfort ambientale, oppresse da solitudine e scoramento davvero difficili da accettare persino per l’osservatore, figuriamoci dalle dirette interessate. L’utilizzo di farmaci, clisteroni, manovre traumatiche sul loro corpo e, dulcis in fundo, una manualità grossolana nei confronti del neonato: stirato, acchiappato per le caviglie, aspirato a più riprese, separato immediatamente dalla madre e in preda ad un’angoscia senza contenimento.

Quando un’ostetrica restava incinta, spesso si sottoponeva volontariamente a un taglio cesareo, e alla domanda sul motivo di tale scelta rispondeva senza esitazione: “preferisco questo ad un parto traumatico”, dando per scontato che lo sarebbe stato!

Nel tempo molto è cambiato, ma non quanto e come ci si sarebbe augurato che avvenisse, sicchè ancora oggi l’ostetrica futura madre tenta almeno, quasi sempre, di conservare un piccolo privilegio: scegliere la collega che vorrà avere al suo fianco nel momento fatidico. Già durante la gravidanza occorre cominciare a separare i piani: donna e ostetrica. Più la prima che la seconda? O viceversa? Non siamo tutte uguali, ma la tentazione di governare da sè buona parte delle fasi gravidiche è spesso forte. Il travaglio parte, infine, e allora giunge il momento in cui occorre mollare gli ormeggi, lasciarsi andare e riporre piena fiducia nella donna/collega che sta accanto. Se la scelta è caduta su di lei è per motivi ben precisi: se ne condivide la filosofia, risponde al bisogno personale di rassicurazione, differente per ogni donna e dunque anche per ogni ostetrica/donna, ha le caratteristiche temperamentali e tecniche rispondenti ai criteri che si ritengono importanti…

Io a suo tempo ho scelto Laura, dalla doppia veste di cognata e ostetrica: era il suo primo parto in casa, e dopo aveva l’adrenalina a mille! Ma ha fatto tuttissimo per bene, sisì! ; )

Le contrazioni: la curiosità di sperimentarle è massima, però quasi mai le fetentissime corrispondono all’idea che l’ostetrica si era fatta di loro. Dolore come quello mestruale, sì, più o meno, ma molto più intenso, ecco. Prima lombare, poi sopra al pube, poi una cosa non tanto immaginabile durante l’espulsione (le donne lo descrivono perlopiù come bruciore intenso, accompagnato dalla sensazione che “qualcosa si rompa”, brrr!!). Pensandolo a freddo, lo si teme un tantino o anche parecchio, ma preoccupa di più la reazione emotiva al suo incalzare, il classico “ce la farò”? Se si partorisce nell’ospedale in cui si lavora, un pò si prova disagio pensando che “tutti mi conoscono, dunque mi devo comportare bene”. Qualcuna invece decide di partorire nella sua casa, e allora si prepara alle inevitabili domande: “ma sei sicura?” in primis…e “da chi ti farai assistere?”, subito dopo.

Oppure ci si affida completamente a un ginecologo, e capita magari di finire per farsi fare un bel cesareo immotivato, ma trovando il modo di motivarselo.

E l’ostetrica che assiste una collega, allora? Anche per lei separare i piani è fondamentale: quella che ha davanti è una donna e basta, altrimenti la tentazione di dare per scontato che sappia già tutto è reale, invece quando partorisce e diventa madre, un’ostetrica è solo una donna/madre, con le sue fragilità, paure e attese, i momenti di scoramento, la stanchezza legata al parto, all’accudimento, al passaggio in un ruolo cruciale nella sua esistenza. La presa in carico deve essere uguale a quella che si mette in campo per tutte le altre donne, poi sarà la neomadre stessa a modulare il suo rapporto con la collega, in base ai bisogni personali.

Certo è che vivere in prima persona l’esperienza di maternità può insegnare tantissimo all’ostetrica: passare dall’altra parte apre sicuramente finestre rimaste socchiuse o decisamente serrate fino a quel momento. Poi capita anche che qualcuna le richiuda, in parte o del tutto: forse dipende da come lei stessa ha vissuto il suo percorso di maternità, ma dentro di sè qualcosa resta sempre, e a volte può fare la differenza tra l’essere solo un “tecnico”, o una miscela di cuore & scienza.

L’ alleanza terapeutica tra donna e ostetrica

Il termine “alleanza terapeutica” appare in numerosi contesti di cura e anche su testi di riferimento legislativo, per indicare quello speciale rapporto che si crea tra curante e assistito e porta alla creazione di un patto condiviso, finalizzato al raggiungimento di un obiettivo comune. In parole semplici, si può definire come un autentico incontro tra le esigenze di entrambi, in cui trovano spazio il dialogo, lo scambio, la domanda e la risposta, la richiesta di professionalità e la disponibilità a fronteggiarla con competenza, rigore, serietà. Nella nostra realtà questo processo prevede anche la stesura di un documento (il consenso informato (*), che testimonia l’avvenuta raccolta delle richieste della persona assistita, l’informazione da essa ricevuta e la conseguente accettazione della proprosta assistenziale.

Nel caso della relazione tra donna e ostetrica, partendo dal presupposto che l’obiettivo è quello di soddisfare il bisogno di salute, che in gravidanza si estende anche al nascituro, il primo passo del percorso consiste nell’ascolto delle richieste, che conduce a stabilire un dialogo.

Come si svolge, nella pratica? Quando vengo contattata da una donna, in genere telefonicamente, inizio a raccogliere la sua necessità di sostegno per mettere a fuoco gli strumenti necessari per fronteggiarla. Abitualmente si concorda un incontro, durante il quale ci si conosce, si stabilisce un primo legame anche emotivo, ci si “annusa” reciprocamente (siamo animali!) e, a poco a poco, si definiscono le posizioni di entrambe. L’ascolto è fondamentale, perchè consente di mettere a punto i passi necessari per risolvere un problema o mettere a punto un percorso assistenziale condiviso. Molto spesso un solo incontro è già risolutivo, per questioni non particolarmente complesse o per consulenze su specifici aspetti della vita o della salute di competenza ostetrico-ginecologica. Altre volte si rende necessario reincontrarsi, per completare un discorso avviato e verificare l’appropriatezza delle soluzioni proposte.

Se la richiesta riguarda l’assistenza in gravidanza e durante il parto, ovviamente il contatto diventa frequente, si intensifica in prossimità dell’evento e prosegue dopo la nascita del bambino, nel sostegno alla nuova condizione. In particolare, se la scelta cade sul parto domiciliare la necessità di informazione sarà molto elevata, ovviamente estesa alla coppia, e da parte dell’ostetrica occorrerà una cura particolare nell’esposizione delle alternative, dei dettagli assistenziali, della scelta del percorso, che contemplerà anche il sondaggio delle motivazioni, dell’accettazione o rifiuto di passaggi tecnici, la messa a punto della documentazione necessaria alla programmazione, la compilazione della cartella ostetrica, la predisposizione di un preventivo di spesa e del consenso informato, un vero e proprio documento in cui risulta tutto quanto è stato espresso dalla professionista, compreso dalla donna e da essa accettatto e sottoscritto. L’importanza di questo documento è davvero enorme per la nostra legislazione, perchè testimonia tutti i passaggi elencati e non può non tenere conto di leggi, regolamenti e, per effetto di un recente decreto, delle linee-guida. Di cosa si tratta? La linea-guida è un insieme di raccomandazioni messe a punto sulla base di conoscenze continuamente aggiornate e ritenute le migliori per garantire che le cure prestate siano appropriate, di elevata qualità e sicure. I sanitari non sono obbligati a metterle in atto, ma fortemente raccomandati a farlo, perchè in caso contario potrebbero andare incontro a serie conseguenze legali.

Facciamo un esempio molto comprensibile: se una donna mi chiede di assisterla a domicilio dopo aver subito un taglio cesareo, la mia posizione di professionista mi impone di informarla circa il fatto che ciò non è consentito dalle linee-guida sul taglio cesareo redatte dall’Istituto Superiore di Sanità, per motivi ben precisi. Sulla base delle conoscenze attualmente disponibili, infatti, questa condizione va gestita solamente in centri ospedalieri che posseggano determinate caratteristiche (**).

Particolarmente importante, dunque, è la serietà con cui l’ostetrica va incontro alle richieste della donna, dal momento che ha obblighi ben precisi, come specificato in un articolo del suo Codice Deontologico: Nell’esercizio dell’attività professionale l’ostetrica/o si attiene alle conoscenze scientifiche e agisce nel rispetto dei principi fondamentali della qualità dell’assistenza e delle disposizioni normative che regolano le funzioni di sua competenza, al fine di assicurare l’appropriatezza, l’equità e la sicurezza delle cure”. In questa frase sono contenuti tutti i principi-guida dell’esercizio professionale, a garanzia di un sostegno non soltanto emotivamente intenso, ma anche tecnicamente rigoroso, l’unico in grado di garantire il miglior risultato per mamma e bambino. Per le donne e per le ostetriche deve essere chiaro che non tutti i desideri possono trovare sbocco nella pratica: il bisogno di cura si deve misurare con le leggi e le linee-guida assistenziali, a meno di accettare un supplemento di rischio che, innanzi tutto, può ripercuotersi anche pesantemente sull’integrità di mamma e neonato, il che è molto grave, ma può assumere risvolti legali ed economici gravosissimi per l’ostetrica, compromettendo sia l’immagine della categoria che la percezione dell’esperienza (interpretata come pericolosa) da parte degli altri operatori sanitari e soprattutto, ed è ciò che più conta, da parte delle donne stesse…

Alleanza terapeutica significa, dunque, partecipazione responsabile al processo terapeutico, in cui la distribuzione del sapere e del potere tra ostetrica e donna consenta a entrambe un’assunzione ragionata e consapevole di responsabilità nei confronti della propria esperienza. E’ davvero qualcosa di grande, che se condotto con la necessaria cura può dare luogo ad un’esperienza di arricchimento prezioso per antrambe, e non solo… : )

 

(*) – https://intornoallanascita.com/2012/10/15/il-consenso-informato-e-le-cure/

(**) – https://intornoallanascita.com/2013/07/10/partorire-dopo-un-cesareo/

Quando è possibile partorire in casa?


Nella vita, se i dubbi sono in agguato occorre sempre informarsi: non è possibile scegliere un percorso senza vagliare le alternative, i pro e i contro, allo stesso modo con cui si scelgono un’auto nuova, una vacanza, un abito… Quando si tratta della salute le decisioni si fanno più ardue, sicchè anche il parto, momento carico di elementi che collegano direttamente con lo stato di benessere fisico e psichico che ci fa sentire “sani”, richiede di operare una scelta. Chi decide di far nascere nell’intimità della sua casa il proprio bambino lo fa per sentirsi accudita in maniera continuativa da un’ostetrica che conosce in gravidanza, che ha sposato la filosofia del rispetto dei tempi naturali di mamma e neonato e che li salvaguarda il più possibile senza mai dimenticare i criteri di sicurezza da garantire ad entrambi. In questo senso, il documento da anni in vigore nella Regione Piemonte (*) rappresenta una garanzia per le donne che vogliono sperimentare il parto a domicilio, poichè si ispira direttamente alle esperienze ormai consolidate del Nord Europa, in cui la nascita in casa rappresenta una possibilità concreta, soprattutto per le olandesi che la vivono nel 30-35% dei casi.

In sintesi, possono accedere all’assistenza, pianificata con cura, tutte le situazioni in cui la gravidanza ha avuto un decorso fisiologico, senza alcuna complicanza, e nel momento in cui insorge il travaglio siano presenti queste condizioni:

– epoca di gravidanza compresa fra le 37 e le 41settimane + 6 giorni

– gravidanza singola (non gemellare) e feto in presentazione cefalica (a testa in giù!)

battito cardiaco del feto regolare

peso fetale stimato all’interno di parametri ben definiti

– assenza di patologia fetale nota e di rischi neonatali prevedibili

– regolare inserzione della placenta (individuata ecograficamente)

– assenza di problemi materni (ostetrici e non) che rappresentino una controindicazione al travaglio di parto, o che richiedano (come nel caso del pregresso taglio cesareo) una sorveglianza intensiva del benessere della madre e del feto durante il travaglio

– insorgenza spontanea del travaglio, rottura delle membrane da meno di 24 ore e liquido amniotico limpido (situazione che andrà comunque opportunamente tenuta sotto osservazione)

– esame batteriologico vaginale negativo per la presenza di Streptococco (a meno che vi sia la possibilitò di disporre di un medico che effettui la prescrizione e sorvegli la somministrazione della terapia antibiotica prevista nei protocolli in caso di positività).

Durante il travaglio, l’ostetrica avrà cura di avvisare il 118 per avere supporto rapido in caso di necessità, e il Centro Ospedaliero con Reparto Ostetrico più vicino per lo stesso motivo, avvisando entrambi dopo il parto per interrompere l’allerta.

L’ostetrica che prende in carico la donna deve non solo attenersi a queste indicazioni, ma sottoscriverlo in forma scritta trasmettendo il documento all’ASL durante la gravidanza, quando viene inoltrata la pratica di rimborso delle spese. In tal modo, la donna ha la garanzia di ricevere un’assistenza conforme ai criteri di sicurezza necessari per una serena esperienza di parto. Pensare di vivere la nascita in casa ignorando questi principi è ovviamente comprensibile per una gestante quando esprime il suo desiderio, ma non accettabile da parte di un’ostetrica onesta, che ha il dovere di operare nei suoi confronti e in quelli del nascituro con coscienza etica, senza fargli correre rischi reali e inutili, secondo i principi espressi dal Codice Deontologico:

“Nell’esercizio dell’attività professionale l’ostetrica/o si attiene alle conoscenze scientifiche e agisce nel rispetto dei principi fondamentali della qualità dell’assistenza e delle disposizioni normative che regolano le funzioni di sua competenza, al fine di assicurare l’appropriatezza, l’equità e la sicurezza delle cure”

“Il comportamento dell’ostetrica/o si fonda sul rispetto dei diritti umani universali, dei principi di etica clinica e dei principi deontologici della professione”

“L’ostetrica/o nell’agire professionale si impegna ad operare con prudenza, diligenza e perizia al fine di tutelare la salute degli assistiti

Informarsi significa anche questo: sapere sempre cosa cercare in chi consultiamo per affidargli la nostra esperienza di vita, e se questa è la nascita di un figlio ogni donna ha il diritto umano fondamentale di ricevere il meglio per sè e per il suo piccino…

(*)  http://webcache.googleusercontent.com/search?q=cache:1OsqODvI-Z0J:www.ostetrichetorinoasti.it/documentazione/parto_domicilio.pdf+&cd=2&hl=it&ct=clnk&gl=it&client=firefox-a

Il puerperio

“Il Signore aggiunse a Mosè: «Riferisci agli Israeliti: quando una donna sarà rimasta incinta e darà alla luce un maschio, sarà immonda per sette giorni; sarà immonda come nel tempo delle sue regole. L’ottavo giorno si circonciderà il bambino. Poi essa resterà ancora trentatrè giorni a purificarsi dal suo sangue; non toccherà alcuna cosa santa e non entrerà nel santuario, finché non siano compiuti i giorni della sua purificazione. Ma se partorisce una femmina, sarà immonda due settimane come al tempo delle sue regole; resterà sessantasei giorni a purificarsi del suo sangue. Quando i giorni della sua purificazione per un figlio o per una figlia saranno compiuti, porterà al sacerdote all’ingresso della tenda del convegno un agnello di un anno come olocausto e un colombo o una tortora in sacrificio di espiazione. Il sacerdote li offrirà davanti al Signore e farà il rito espiatorio per lei; essa sarà purificata dal flusso del suo sangue. Questa è la legge relativa alla donna che partorisce un maschio o una femmina. Se non ha mezzi da offrire un agnello, prenderà due tortore o due colombi: uno per l’olocausto e l’altro per il sacrificio espiatorio. Il sacerdote farà il rito espiatorio per lei ed essa sarà monda»”

Effinalmente, diciamo noi… : (

Il brano è tratto dal Levitico, testo biblico, e descrive la percezione collettiva di quell’epoca della donna dopo il parto nella fase che denominiamo puerperio, da puerpera, ossia “donna che ha appena partorito”, a sua volta dal latino puer (fanciullo) e pario (partorisco). Ancora oggi, presso varie culture, persistono rituali, proibizioni e imposizioni riferite a questo periodo, che convenzionalmente si colloca nelle sei settimane successive alla nascita di un bimbo, per comprendervi i fenomeni principali che interessano l’organismo materno fino al ritorno (eventuale, non scontato) della mestruazione, che segna la ripresa dell’attività delle ovaie. Una fase molto particolare, dunque, nella vita della donna, connotata da numerosi cambiamenti personali, fisici ed emotivi, ma anche sociali, influenzando le relazioni interpersonali sia per la trasformazione che subisce l’identità femminile che per gli sforzi di adattamento richiesti dalla nuova condizione. E’ evidente però che lo scadere della sesta settimana non significa nulla in termini pratici, nel senso che non interrompe nè modifica la vita della neomadre, e non sempre è un periodo sufficiente per garantirle recupero fisico e/o psichico: se allatta investe energie supplementari, necessita di riposo, non sempre riprende l’attività sessuale e spesso non ha supporto nella gestione delle altre incombenze quotidiane.

In Italia l’assistenza è incentrata quasi essenzialmente su gravidanza e parto, mentre trascura in maniera consistente di occuparsi della madre e del neonato proprio nel momento in cui essi hanno bisogno di riconoscersi, imparare a convivere, instaurare quel legame lento e graduale fondamentale per la salute globale di entrambi. Eppure in questa fase la donna può ancora sperimentare disagi non indifferenti, legati alla presenza di cicatrici vaginali o addominali (in caso di taglio cesareo), riduzione marcata del tono muscolare dell’addome, alterazioni dello svuotamento della vescica o dell’intestino, problemi di allattamento, difficoltà alla ripresa dei rapporti sessuali, alterazioni dell’umore, o semplicemente vivere con estrema fatica la “banale” riorganizzazione dell’esistenza, sua e del neopadre.

La figura professionale più appropriata per fornirle l’aiuto necessario è quella ostetrica, come riconosciuto dalla normativa che ne regola l’attività: un solo incontro post-parto può capovolgere davvero la situazione, apportando sulla donna, sul suo compagno, sul neonato e sull’ambiente di vita tutto il sostegno e i correttivi necessari per proseguire serenamente la meravigliosa avventura esistenziale iniziata molto tempo prima…

(*) nb. anche la mestruazione o qualunque altra perdita di sangue dai genitali la poneva nella medesima condizione di impurità.

Nutrire per crescere


Il verbo nutrire assume vari significati, ma quelli più suggestivi ci vengono proposti dall’enciclopedia Treccani: “Il fatto di alimentare, di fornire materia allo svilupparsi di sentimenti, e il mezzo stesso, la materia che dà alimento (nutrimento): dare, fornire nall’amicizia, all’amore, all’ira, al dolore, alla disperazione“, e anche “quanto contribuisce ad arricchire le facoltà spirituali e intellettuali, e l’effetto che ne deriva: letture che danno nalla mente, allo spirito”. Dunque, si può dare nutrimento non soltanto al corpo, ma anche alla parte emotiva della nostra natura, quella che ci permette di sperimentare sensazioni, desideri e di arricchire la vita di consapevolezza, nella buona e nella cattiva sorte…

Proviamo a trasferire questo concetto all’attesa di un figlio, cioè all’evento più intenso della vita, quello che amalgama corpo e mente di una donna in un’unica massa di percezioni mai provate prima: non necessita anche, e soprattutto, questa condizione, di un nutrimento speciale, fatto di attenzioni, cure, assistenza competente, informazioni corrette, strumenti per scegliere in libertà? E avere a disposizione tutto questo non permette di crescere, preparandosi ad affrontare il ruolo di genitore sentendosi più forti, capaci, consapevoli della propria abilità per gran parte innata, pronte a padroneggiare la situazione nuova con la serenità di chi sa di possedere dentro di sè tutto quanto serve per farlo nel modo giusto?

Chi può aiutare la donna a raggiungere obiettivi apparentemente così ambiziosi? La figura professionale che in Italia è riconosciuta dal Ministero della Salute come quella idonea a farlo: l’ostetrica, professionista formata specificamente per prendersi cura della donna, del neonato, della coppia e della famiglia (*). Le sue competenze spaziano, in base all’esperienza che acquisisce nel suo percorso professionale, ma quando si affianca alla donna in attesa può davvero diventare promotrice di salute presente e futura per lei e per il suo bambino, senza trascurare gli altri membri della famiglia, in primis il padre del bebè. E’ fondamentale per una donna che sente il bisogno di essere sostenuta in maniera globale, desidera progettare un parto naturale, vissuto come normale processo biologico ma in sicurezza, con interventi esterni limitati ai casi di reale necessità. La vicinanza di un’ostetrica è associata ad un’evoluzione della gravidanza più fisiologica, con significativo abbattimento degli interventi inutili su mamma e neonato lungo tutto il percorso-nascita, a migliori esiti in termini di riduzione di tagli cesarei e uso di analgesia farmacologica, ad aumento dei parti spontanei non complicati e degli allattamenti naturali. In generale, tende a disporre di più tempo da destinare al dialogo e ai bisogni emotivi e fisici connessi con la nuova condizione, e ad aiutare maggiormente la donna a focalizzare che tipo di esperienza vuole vivere, supportandola nelle sue decisioni senza compromettere la sicurezza dell’evento, rispettando le sue scelte.

Trovare un’ostetrica non è difficile, e se non si crea feeling con una si prova a cercarne un’altra, un pò come si fa con il parrucchiere… ; )

(*)  http://www.fnco.it/codice-deontologico.htm

Incontinenza urinaria: un problema sottovalutato

Sembra che parlare di incontinenza urinaria sia davvero difficile, per chi la sperimenta. Eppure stiamo analizzando una questione che riguarda una percentuale consistente di donne (e uomini, ma ci limiteremo a trattare quella femminile). Si tratta delle perdita involontaria di urina, che può interessare anche giovani donne e presentarsi sotto svariate forme, prima o dopo una gravidanza, un parto, un trauma, o favorita dall’obesità, da altre condizioni quali il diabete e dall’assunzione di farmaci che alterano il tessuto vescicale. E’ evidente che comporta un disagio difficile da arginare, e nel contempo viene spesso considerata dalla donna come “naturale”, sicchè ci si abitua a conviverci, raramente riportando al medico questo dettaglio non trascurabile della propria esistenza. Eppure si tratta di un inconveniente che si può affrontare, innanzitutto parlandone: durante una visita ginecologica, ad esempio, oppure con l’ostetrica, figura cardine, quando opportunamente formata, nella rilevazione del problema e anche nella sua soluzione, all’interno di un’équipe in cui ogni altro membro fa la sua parte (urologo, ginecologo, proctologo, fisioterapista).

Il passo successivo consisterà nel valutare la dimensione del problema, le sue cause, gli strumenti più appropriati per risolverlo. Perchè la bella notizia è che si può risolvere nella stragrande maggioranza dei casi, e sempre di più stanno nascendo centri specializzati (ambulatori dell’incontinenza) nell’affrontarlo sotto tutti i punti di vista, senza improvvisazioni. Dunque, al bando timori, senso di disagio o vergogna, contattare il centro più vicino e affidarsi con fiducia a chi può porvi rimedio!!

Elenco centri incontinenza italiani:

http://www.finco.org/centri-finco.html

La coppia prima e dopo il parto

Questo bel dipinto di Jack Vettriano ben si presta per affrontare l’argomento…

Se ne parla poco, si evita generalmente il discorso, o a volte lo si affronta in punta di piedi, spingendosi a porre domande non sempre esplicite al medico o all’ostetrica, ma solo se l’intimità della relazione lo permette: la vita di una coppia subisce uno scossone consistente sia durante la gravidanza che dopo il parto, a volte in maniera tale da compromettere la serenità della convivenza presente e futura. La nascita del primo figlio produce la più forte crisi “transizionale” nell’arco della vita a due.

Una coppia formata da poco, per esempio, può non avere ancora basi emotive, di affiatamento e anche una condizione pratica (occupazione, abitazione) sufficienti a fronteggiare un evento come l’arrivo di un bimbo e l’impegno necessario per crescerlo. A distanza di mesi o anni, quando il figlio inizia a staccarsi dall’adulto e ad acquisire autonomia, può apparire in tutto il suo spessore la lacuna relazionale lasciata in disparte dalla gravidanza in poi.

Un legame che invece si protrae da molto tempo può patire l’interruzione della routine indotta dalla presenza del neonato, dai suoi bisogni distribuiti nelle 24 ore e dalla difficoltà di riorganizzare la propria vita secondo schemi totalmente differenti.

Ma in qualunque situazione  la coppia deve risistemare il proprio assetto pratico, emotivo, fisico. Il problema più grande è proprio legato al fatto che donne e uomini poco o nulla parlano di questo aspetto della vita. Invece tirarlo fuori aiuta a condividere ansie, timori, a maturare come persone e getta le basi per proseguire il cammino nel sostegno reciproco, nella comprensione delle proprie debolezze e di quelle dell’altro/a, nella crescita emotiva che fa bene a sè stessi e ai propri bambini…

Indagini e ricerche suggeriscono che i neopapà riportano maggiori elementi di insoddisfazione nel passaggio da coppia a famiglia. La situazione sociale attuale produce disagi più marcati, per via dell’aumento del senso di solitudine, della percezione di “sentirsi in gabbia”, gravata da sensi di colpa e da sentimenti che sorprendono la coppia, perchè riferiti spesso diversi da quelli preventivati.

Una riflessione della dott.ssa Alessandra Graziottin aiuta a focalizzare le dinamiche emozionali connesse con il diventare genitori:
“La percentuale di uomini che giudica “buona” la qualità della relazione di coppia passa dall’84 per cento al 48 per cento dopo la nascita del primo figlio, con un crollo ancora più deciso per la qualità della vita sessuale, giudicata buona dal 69 per cento degli uomini prima della nascita e solo dal 28 per cento di loro, dopo.

Come cambia la relazione d’amore con la nascita del primo figlio?
Il diventare genitori trasforma in modo sostanziale la relazione coniugale. Tre sono le grandi componenti della relazione di coppia: la dimensione romantico-erotica, quella di complicità amicale, e quella di solidarietà. Con la nascita del piccolo e il massiccio investimento di energia e di tempo che richiede, si riducono a picco la dimensione romantico-erotica e quella di complicità amicale, mentre sale e diventa prioritaria la solidarietà. Aspetto importante per la cura del piccolo ma che, esasperato, uccide l’intimità e l’erotismo, finendo per colpire al cuore la stessa soddisfazione coniugale.

Quali sono i fattori che mettono a rischio la coppia?
La rapidità e la gravità del crollo della soddisfazione affettiva hanno tre fattori predittivi principali: 1) gli atteggiamenti negativi del partner nei confronti della moglie (incluse le gelosie più o meno segrete che il neopapà nutre nei confronti del figlio e dell’esclusività di legame tra il piccolo e la madre, specie se lei esaspera questa contrapposizione); 2) la delusione coniugale del marito nei confronti del legame (percepito come noioso, faticoso, poco erotico); 3) la percezione di uno o entrambi i partner di una vita coniugale “caotica”, specie dopo la nascita del piccolo.

Quali fattori proteggono la coppia dalla crisi dopo il primo figlio?
Tre sono anche i fattori protettivi, che aiutano o migliorano la soddisfazione coniugale dopo la nascita del piccolo: 1) la tenerezza del neopapà verso la moglie, e non solo verso il bambino; 2) un’alta considerazione di lei e del valore della coppia; 3) la considerazione in cui lei tiene il compagno e la relazione di coppia.

Che cosa si può fare per recuperare una buona soddisfazione coniugale?
Innanzitutto, bisogna prepararsi con cura al diventare genitori, senza arrendersi alle emozioni negative che spesso irrompono dopo la prima euforia. Bisognerebbe riuscire a mantenere un proprio spazio, senza triangolare sempre sul figlio: è prezioso avere ancora una sera alla settimana per sé… meglio se con l’aiuto di una persona di famiglia che guardi il piccolo, così da uscire in piena serenità. La neomamma dovrebbe evitare di fare “coppia fissa” con il figlio, specie se maschio, mantenendo un giusto equilibrio di attenzione anche nei confronti del partner.”

Un’ostetrica esperta può davvero fare molto per le donne e le coppie, prima e dopo il parto: preparare entrambi a una nascita senza traumi ed emotivamente intensa, sostenere globalmente la neomamma nel suo adattamento alla nuova condizione, aiutandola anche a superare i problemi fisici che ostacolano l’intimità sessuale con opportuni interventi di rieducazione della muscolatura vaginale, consigliando un idoneo sistema contraccettivo per eliminare i timori di una nuova gravidanza, insegnando esercizi di recupero fisico importanti non solo per la postura, ma anche per il ripristino di una buona percezione di sè. Anche i neopadri possono trovare in essa un’alleata preziosa, con cui condividere le stesse emozioni, le medesime paure della compagna, e da cui magari ricevere quel supporto che si pensa sia così difficile da chiedere e da far comprendere…

Che fine fa la placenta?

Alcuni anni fa mi capitò di venire a conoscenza di un costume del quale ignoravo l’esistenza e che, lì per lì, mi provocò una reazione immediata di disgusto: la placentofagia, praticata per scopi rituali o fisiologici all’interno di particolari contesti culturali. Mi riproposi pertanto di tornare sull’argomento alla prima occasione, che si presentò casualmente: su un sito trovai uno studio di Patricia Guthrie, antropologa sociale (“Many cultures revere placenta, byproduct of childbirth”). Ve ne propongo parte del contenuto, sottolineando che con il generico termine di “placenta” ci si riferisce all’insieme di placenta, cordone ombelicale residuo dopo il taglio e membrane (il “sacco”).

L’autrice parte dalla considerazione che “nella medicina occidentale la placenta umana viene abitualmente considerata come nulla più che un rifiuto, mentre presso molte culture essa gode di un trattamento di tipo cerimoniale. Riverita per il suo simbolismo collegato con la vita, lo spirito e l’individualità, viene spesso sepolta all’esterno. Alcune popolazioni la sottopongono anche a cottura e se ne cibano, sia per celebrare la nascita sia per il suo alto contenuto di nutrienti. Presso gli Indiani Navajo del Sudovest degli USA è d’uso seppellire una placenta all’interno del territorio della riserva tribale, delimitato dai Quattro Angoli sacri, come simbolo di legame con la terra degli antenati e il gruppo di appartenenza. I Maori della Nuova Zelanda mantengono anch’essi la tradizione di sotterrare la placenta sotto il suolo nativo. Nel loro linguaggio originale, la parola per “terra” e “placenta” è la medesima: whenua. Gli indigeni boliviani Aymara e il popolo Quechua pensano che la placenta abbia un suo proprio spirito. Essa deve essere lavata e sotterrata dal padre in un luogo segreto e ombroso. Se questo rituale non viene correttamente eseguito, la madre o il bambino possono ammalarsi gravemente o anche morire. Gli Ibo della Nigeria e del Ghana trattano la placenta come il gemello morto del bambino vivente e le tributano riti di sepoltura. Le madri filippine sono solite sotterrare la placenta con libri, nella speranza di avere un bambino intelligente.

Altre culture usano associare alla placenta un simbolo del proprio gruppo sociale quando la interrano, come una sorta di assicurazione di discendenza.

Presso l’etnia Hmong del Sudest Asiatico, la parola per “placenta” può essere tradotta come “giacca”, essendo considerata il primo e più bell’indumento del bambino. Anch’essi sotterrano la placenta, poiché pensano che dopo la morte l’anima deve ripercorrere, a ritroso, i tragitti seguiti in vita fino a tornare al luogo di sepoltura della propria “giacca-placenta”…

Essendo la placenta la struttura anatomica attraverso la quale il feto riceve nutrimento, molte culture la considerano ricca di principi nutritivi; ritengono inoltre che attenui la depressione postparto. La preparazione della placenta per il consumo da parte della madre è usanza tradizionale presso Cinesi e Vietnamiti. I primi pensano che una madre nutrice debba bollire la placenta, consumandone il brodo, poiché berlo rende migliore il suo latte. Questa pratica, conosciuta come “placentofagia”, non è stata molto apprezzata quando, nel 1998, è comparsa sul programma inglese di cucina “TV dinner”, secondo il periodico londinese “The independent”…

A questo punto, l’autrice analizza le reazioni suscitate dalla visione del programma negli spettatori, che dimostrano non soltanto quanto sia lontano un concetto del genere dal nostro modo di pensare, ma anche quanto arduo sia tentare di trasferire nel nostro contesto culturale usanze che non ci appartengono, che non sentiamo intimamente parte della nostra tradizione.

“Al programma ha partecipato una coppia londinese che festeggiava la nascita della nipote, preparando e poi mangiando la placenta della bambina, come un modo per diffondere rituali di altre parti del mondo e condividere simbolicamente il patrimonio genetico della neonata. La placenta è stata fritta con aglio e scalogno, flambata, triturata e servita a venti famigliari e amici, in forma di patè su focaccia. Il padre si servì 17 volte, ma gli altri ospiti furono meno entusiasti”, ha riportato il giornale. Dopo aver ricevuto lamentele dai telespettatori, la redazione reputò che il programma avesse violato un tabù e che fosse risultato sgradevole per molti, anche se i produttori avevano cercato di trattare l’argomento con sensibilità e imparzialità”.

E’ probabile che un gesto del genere sia stato vissuto come “cannibalico”: di certo nelle nostre società non esiste un legame così stretto con la placenta, né le si attribuisce alcun significato simbolico. Tuttavia, sarebbe bello che come ostetriche ci abituassimo a valorizzare quest’organo agli occhi della donna/coppia, a mostrarlo come parte di un insieme, descriverlo, farne intuire il fascino più o meno nascosto: la placenta è di una bellezza sorprendente. Dopo aver assistito un parto domiciliare, se ci sono fratellini la osserviamo sempre insieme, e i loro occhi si riempiono di stupore mentre fanno mille domande; quasi sempre la lascio alla donna, poiché ritengo che ne sia legittima proprietaria, proponendole di sotterrarla: il più delle volte finisce in un grande vaso o in piena terra, alla base di una pianta che ben presto diventa meravigliosamente florida… ; )

Partorire dopo un cesareo

“Il cesareo è un intervento formidabile per far nascere alcuni bambini con problemi, ma è una tragedia che diventi un modo abituale di nascere”

Michel Odent

Un taglio cesareo rappresenta sempre interruzione: delle aspettative riguardo ad un parto spontaneo, dell’esperienza di una nascita portata a termine naturalmente, dell’integrità dell’addome materno, dell’idea di “far nascere” che nella mente aveva preso corpo pian pianino…La bella riflessione è che la chirurgia ha consentito di salvare molte madri e molti bambini, ma ora occorre soffermarsi senza dubbio sui risvolti aberranti di tale pratica, spinta alla moltiplicazione superficiale, spacciata per “il modo migliore di far nascere un essere umano”, usata a scopo di maggior lucro e in una miriade di situazioni in cui risulta arduo dimostrare che fosse necessaria.

Per avere un’idea della situazione italiana, si può consultare il post a tema: https://intornoallanascita.com/2011/12/29/il-taglio-cesareo-se-e-quando-serve/

Proviamo invece a spostare l’attenzione sulla possibilità che, a seguito di taglio cesareo, si possa partorire per le vie naturali (parto vaginale dopo cesareo, per il quale si utilizza la sigla VBAC: Vaginal Birth After Caesarean): fino ad ora, almeno in Italia, la tendenza generale è stata quella di ripercorrere la via chirurgica, quasi si trattasse di una maledizione biblica (un cesareo, tutti cesarei…). In realtà tutti gli studi finora condotti suggeriscono che la strada migliore da percorrere, in termini di salute materna e neonatale, sia quella di informare correttamente le donne per consentirgli di provare un parto vaginale, valutando attentamente il progredire del travaglio. In particolare, si è osservata  una riduzione della mortalità materna associata al parto naturale rispetto al taglio cesareo ripetuto.

Le donne con pregresso taglio cesareo presentano un maggior rischio di posizionamento  anomalo della placenta nel corso di una gravidanza successiva, rispetto alle donne non sottoposte a cesareo; tale rischio tende a crescere con il numero di precedenti tagli cesarei e si associa ad incremento di altri esiti negativi per la salute della donna, quali
emorragia, necessità di asportare l’utero, infezioni e anomalie di varia natura, senza contare i riflessi sul neonato.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità, nelle sue le raccomandazioni per la nascita, al punto 7 dichiara:
“Non c’è nessuna prova che dopo un precedente taglio cesareo trasversale basso sia richiesto un ulteriore taglio cesareo per la gravidanza successiva. Parti vaginali, dopo un cesareo, dovrebbero essere di norma incoraggiati dove è possibile disporre di un servizio di emergenza per eventuale intervento chirurgico”.

In Italia, nel 2012 sono state approvate dall’Istituto Superiore di Sanità le Linee guida per il Taglio Cesareo, che riportano alcune considerazioni fondamentali:

 * Sulla base delle prove scientifiche disponibili, sottoporre la donna a tagli cesarei ripetuti aumenta la morbosità e la mortalità materne e perinatali.

 * L’ammissione al travaglio, in assenza di controindicazioni specifiche e in presenza di un’organizzazione assistenziale adeguata, deve essere offerta a tutte le donne che hanno già partorito mediante taglio cesareo.

 * Alle donne che hanno già partorito mediante taglio cesareo devono essere garantiti un’adeguata sorveglianza clinica e un monitoraggio elettronico fetale continuo nella fase attiva del travaglio. La struttura sanitaria deve assicurare tutti gli interventi necessari nell’eventualità di un taglio cesareo d’urgenza.

Tutte queste condizioni sono facilmente realizzabili in qualunque reparto di Ostetricia ben organizzato e attrezzato: e allora perchè nella quotidianità si continuano a particare cesarei su cesarei, senza valide ragioni? La motivazione principale che viene chiamata in causa riguarda la possibile evenienza di una cosiddetta “rottura d’utero”, ossia il cedimento della cicatrice uterina durante il travaglio, di fatto rara e gestibile con rapidità in ambiente idoneo e monitorando strettamente le condizioni di mamma e feto.

E’ ovvio che stiamo parlando di una condizione che richiede sorveglianza intensiva, come specificato nelle linee-guida. Altrettando ovvio che questo evento non possa avvenire tra le mura domestiche.

Per le donne è davvero importante cercare e ricevere informazioni complete e corrette, libere da terrorismi superflui, che consentano di sentirsi coinvolte nelle decisioni sulla gravidanza e sul parto: per loro significa non soltanto avere il diritto di conoscere l’alternativa ad un altro cesareo, ma avere l’opportunità di vivere un’esperienza “senza interruzioni”, libera dalla sensazione di aver affrontato un ulteriore taglio sulla pancia privo di motivazioni reali…

L’assistenza in gravidanza e durante il parto: chi e come?

Volendo, una donna potrebbe anche partorire da sola: in giro per il mondo moltissime lo fanno per mancanza di alternative, altre per scelta, convinte di garantire il meglio a sè stesse e al neonato, senza interferenze esterne. Ma se la sopravvivenza e le condizioni di salute di entrambi sono migliorate sensibilmente nel tempo, nei paesi più avanzati, lo si deve alle mutate condizioni sociali, sanitarie, e anche alla comparsa sulla scena di persone competenti, in grado di rilevare elementi di deviazione dalla norma o di rischio per mamma e bambino durante la gravidanza o al momento del parto, capaci inoltre di supportare il ruolo genitoriale nella delicata fase post parto.

Tralasciamo il dettaglio (non trascurabile!) che questi eventi hanno subito anche una medicalizzazione esasperata, attualmente messa molto in discussione non soltanto da movimenti crescenti di donne stufe di subire interventi non necessari e spesso almeno fastidiosi, ma anche da serissimi studi scientifici volti a mettere a fuoco cosa davvero serve fare in ambito assistenziale per garantire buoni esiti e cosa no.

Occorre distinguere innanzi tutto tra una condizione di normalità, di cosiddetta fisiologia, e una che invece necessita di una più accurata presa in carico, e di correttivi che richiedono una  diversa competenza: le due figure sanitarie cardine dell’assistenza, ciascuna dotata di propria autonomia e con spazi di responsabilità ben delineati, sono quelle dell’ostetrica e del medico specialista (ginecologo/ostetrico).

Il ginecologo interviene in tutte le situazioni in cui si profila un rischio, anche potenziale, mentre l’ostetrica ha la possibilità di gestire interamente da sola tutte le fasi della gestazione, del parto e del puerperio che si mantengono in ambito fisiologico, intrattenendo con la donna un rapporto abitualmente molto più improntato alla vicinanza emotiva di quanto lo sia quello con il medico. La relazione richiede tempo, e il fattore tempo diventa spesso determinante anche sulla qualità dell’intervento “tecnico”.

La formazione dell’ostetrica avviene attraverso un corso di laurea triennale, durante il quale lo studio teorico si integra con la pratica ospedaliera e ambulatoriale. Le sue competenze sono davvero tante e molto legate alle varie fasi della vita femminile (dalla nascita alla vecchiaia), ma estese alla coppia, al neonato, al bambino e all’adolescente. L’ostetrica può trovare spazi d’intervento sul piano dell’informazione, dell’educazione sanitaria, dell’intervento diretto in sala parto, sala operatoria, reparto ostetrico/ginecologico e neonatologico, consultorio territoriale e in molte altre situazioni correlate con l’esigenza di promozione della salute, intesa in senso lato, in veste di dipendente o in regime di libera attività.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha da tempo riconosciuto il ruolo fondamentale ed insostituibile di questa professionista, che attraverso adeguata formazione e acquisizione di esperienza pratica può realmente operare a 360 gradi, con strumenti relativamente semplici, modificando le condizioni sanitarie della popolazione fin dalla nascita, specialmente quando l’assistenza è fornita in maniera continuativa dalla medesima persona e in sinergia con le altre figure.

Peccato che in Italia sia così poco valorizzata dalle istituzioni e scarsamente conosciuta dalle donne, prime beneficiarie delle sue variegate competenze…

Per approfondire:

http://www.fnco.it/codice-deontologico.htm