Scegliere l’ospedale dove partorire

Dove vado a partorire?  Ogni donna se lo chiede quando inizia una gravidanza, e deve compiere una scelta, fondamentale per rispondere al suo bisogno di vivere l’esperienza della nascita secondo i propri desideri. Ma non sempre una donna esprime desideri definiti, oltre a quello di giungere alla fine del percorso mantenendo la propria integrità fisica e quella del suo piccolo. Ne consegue che, essendo nella stragrande maggioranza dei casi seguita in gravidanza da un ginecologo (perchè non al corrente del fatto che anche un’ostetrica ha le competenze per farlo, se tutto si svolge nell’ambito della fisiologia), la scelta cade semplicemente sulla struttura in cui lo stesso eventualmente lavora, benchè non sia ovvio che sarà presente durante il parto.

Dunque, già in gravidanza si traccia la strada, scegliendo la persona più rispondente alle esigenze personali per i controlli. Molto spesso, quando chiedo di conoscere le sue aspettative, la quasi mamma mi risponde proprio così: “Che tutto vada bene”. In quella piccola frase, in realtà, è contenuto un universo, perchè le variabili che intervengono nel tragitto che porta dal test di gravidanza positivo al parto sono innumerevoli, e quasi mai preventivate perchè non conosciute.

Chiarire a sè stesse quale professionista si vuole, con quali atteggiamenti assistenziali e relazionali, e quale esperienza, rappresenta il primo passo per una scelta consapevole e indirizzata verso obiettivi precisi: essere a conoscenza degli interventi ed esami davvero importanti (e di quelli superflui) per monitorare la gravidanza normale è, ad esempio, un buon inizio (*).

Assumere informazioni sull’ospedale in cui si è deciso di partorire è invece non soltanto un diritto (il personale delle strutture pubbliche è pagato per rispondere alle richieste), ma un’altra tappa importante della presa di coscienza che occorre iniziare a decidere per sè e per il proprio bambino, processo che durerà fino a quando lo stesso sarà in grado di assumere decisioni autonome.

Nei giorni scorsi, una giovane ostetrica mi spiegava ad esempio che nell’ospedale in cui lavora si effettua a quasi tutte le donne (salvo quelle che non danno il tempo di farla perchè sparano fuori il pupo…) l’episiotomia, ovvero il taglietto vaginale con le forbici durante l’espulsione del neonato, “perchè siamo abituate così”. Quando ho chiesto se tra le abitudini vi era anche quella di valutare con attenzione se l’intervento fosse davvero necessario, o di chiedere preventivamente il consenso della donna (come previsto abbondantemente dalla legge italiana in materia), la risposta è stata “noooo!!! si fa e basta”…

Già, si fa e basta. Mah!? Eppure, tanto per dire, l’Organizzazione Mondiale della Sanità si è espressa con chiarezza e sulla base di dati scientifici ben strutturati, sulla questione-episiotomia… (*)

Informarsi, leggere, parlare con altre donne, mettere a fuoco cosa si vorrebbe per sè, avanzare garbate richieste all’ospedale individuato per partorire, scambiare quattro chiacchiere con le ostetriche che vi lavorano, visitarne altri e prendere nota delle differenze sono passaggi che aiutano a scegliere le migliori condizioni in cui vivere l’esperienza più intensa della vita. Una struttura che non consente di visitare la sala parto, che non lascia il papà accanto alla partoriente in travaglio e il piccolo accanto alla madre, che obbliga al digiuno, al monitoraggio continuo e a partorire in posizioni prestabilite, che non offre apertura verso il bisogno di essere informate, che vede nelle richieste delle donne non uno strumento di relazione ma un intralcio all’organizzazione del lavoro va scartato di certo, in favore di uno che allarga gli orizzonti e prevede il dialogo franco, l’informazione corretta e scientificamente aggiornata, il rispetto per i bisogni della mamma quando non entrano in contrasto con le esigenze di sicurezza per lei e per il suo cucciolo. In questo modo, le strutture virtuose potranno operare con sempre maggiore efficienza e crescere, e le altre saranno costrette ad adeguarsi se vorranno sopravvivere.

Umiltà, insomma, da parte di tutti, e tanta professionalità competente al servizio della causa di una buona nascita… 😉

(*)   – https://intornoallanascita.com/2012/02/06/esami-in-gravidanza-il-protocollo-ministeriale/

(**)  – http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2013/05/06/news/mamme_in_italia_sala_parto-58167160/

La parcella dell’ostetrica

Quello dell’ostetrica è un lavoro, non proprio come tutti, per via delle sue forti implicazioni emotive, ma comunque una professione che poggia le sue basi su un processo formativo, l’acquisizione di competenze, il loro mantenimento attraverso l’aggiornamento continuo. Di conseguenza, necessita di un corrispettivo economico, al pari di tutte le altre attività lavorative umane (*). Quando l’ostetrica opera in regime di libera professione, spesso l’idea che le persone si fanno è che la remunerazione delle sue prestazioni preveda cifre piuttosto basse, sulla base di riflessioni diverse. Proviamo ad analizzare gli elementi che concorrono a definire la parcella di una professionista, per poter mettere a fuoco che cosa contiene. Innanzi tutto viene riconosciuta la competenza, ovvio, esattamente come ad un architetto, a un falegname, a un medico o a un idraulico: chi farebbe mai ricorso a persone senza qualifica per fronteggiare un problema specifico, ben sapendo che non sarebbero in grado di farlo?

Poi il fattore-tempo: per andare incontro ai bisogni di una donna, occorre dedicarle mediamente ben più di un’ora per ogni incontro, di conseguenza occorre definire un costo base orario per la consulenza, al pari di quanto fa un insegnante o qualunque altro professionista qualificato. Se gli incontri avvengono in uno studio privato, l’ostetrica dovrà conteggiare le spese da destinare al suo funzionamento, o la percentuale da lasciare allo studio se ne utilizza solamente gli spazi; se al domicilio della donna, gli oneri per lo spostamento, e magari il parcheggio in area a pagamento. E’ ben noto a tutti il “diritto di chiamata” degli artigiani, corrisposto anche solo per una supervisione quando si richiede il loro intervento a domicilio per valutare un problema… 😉

Ancora: l’utilizzo di materiale monouso, l’ammortamento di strumentazioni varie (l’apparecchio per la rilevazione del battito fetale, ad esempio) e la produzione/consegna di opuscoli informativi vanno conteggiati come spesa, ed entrano a far parte della parcella.

Se l’ostetrica deve prodursi nell’assistenza al parto si dovranno prevedere ulteriori voci: la reperibilità continua, 24 ore su 24, a partire dalla fine della 37ma settimana di gravidanza e fino quasi alla 42ma, comporta una forte limitazione della libertà di movimento e programmazione delle attività per la professionista, ma quasi mai viene considerata come una componente dell’assistenza, che ha quindi un costo.

Il fatto di poter disporre in qualunque momento del supporto di una persona di fiducia, con cui si è creato un legame non soltanto professionale, è qualcosa di prezioso e importante, che può influire in maniera forte sugli esiti dell’esperienza di parto, specialmente se è l’ostetrica prescelta ad assistere direttamente la donna, come nel caso del parto a domicilio. In questa situazione, le voci che vanno a definire il compenso finale sono molte: il numero di visite pre e post-parto, la reperibilità, l’assistenza al parto, l’utilizzo di materiale vario e l’ammortamento di altra strumentazione o disponibilità farmacologica, i costi di spostamento, il disbrigo di pratiche burocratiche pre e post-parto finalizzate all’organizzazione dell’evento (che comportano spostamenti e dispendio di tempo!), e tutti gli interventi accessori che garantiscono la qualità dell’assistenza su mamma e neonato.

L’ostetrica non lascia mai una donna a sè stessa, anche a distanza dalla nascita del suo bambino, ma resta disponibile per qualunque necessità, rispondendo sempre alle sue richieste di aiuto (in molti Paesi la consulenza telefonica è a pagamento, addebitata sulla bolletta!!).

Infine, occorre tener presente che sul totale lordo incamerato dall’ostetrica gravano voci come la tassazione, il versamento di contributi previdenziali, l’iscrizione all’albo, un’assicurazione per responsabilità civile (sempre più cara) e contro gli infortuni, l’iscrizione a corsi di aggiornamento e tutte le spese sostenute per l’esercizio dell’attività stessa (un’auto efficiente, ad esempio, o la parcella del commercialista)…

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(*) – La Federazione Nazionale dei Collegi delle Ostetriche ha da tempo definito il principio secondo cui “Il compenso è fissato in relazione alla rilevanza, delicatezza e complessità della prestazione, dell’intervento, del piano o del progetto attuato dal professionista. I compensi per le prestazioni domiciliari devono essere maggiorati in ragione della distanza del domicilio del cliente e delle spese sostenute dal professionista. I compensi per le prestazioni effettuate nei giorni festivi o in orario notturno sono maggiorati del 30%. I presidi ed il materiale sanitario d’uso corrente del professionista sono a carico
dell’assistito”.
°  Art. 2233 del Codice Civile: “la misura del compenso deve essere adeguata all’importanza dell’opera e al decoro della professione”.

Partorire nell’intimità

Quando una donna riflette su come e dove far nascere il suo bambino, il primo dialogo lo affronta con il futuro padre, e se entrambi concordano sulla possibilità di vivere l’esperienza tra le pareti domestiche contattano un’ostetrica che ha scelto di occuparsi di questo ambito, avendo maturato certe competenze nel tempo e nei luoghi giusti.

Il primo incontro è fondamentale per guardarsi, “annusarsi” e captare la capacità reciproca di entrare in sintonia, ma anche per fornire un’informazione approfondita, completa e corretta su come impostare il percorso assistenziale, oltre a stilare un preventivo esatto dei costi da sostenere. L’idea di partorire in casa comporta la programmazione scrupolosa di tutte le fasi organizzative dell’evento, e in alcune regioni anche il disbrigo di pratiche burocratiche legate alla possibilità di ottenere un rimborso delle spese. Quindi, se si crea quell’alleanza necessaria per procedere oltre, si comincia a mettere a fuoco se la donna è nelle condizioni giuste per affrontare un parto a domicilio (assenza di elementi di rischio), si imposta una preparazione globale fisica e psichica mirata sui bisogni specifici, si compila una cartella ostetrica (esattamente come in ospedale), si valuta l’evoluzione della gravidanza, preparando il materiale e l’ambiente in prossimità del parto.

Il contatto tra donna e ostetrica non si interrompe mai, e in ogni momento quest’ultima rappresenta il punto di riferimento e supporto per qualunque esigenza, pratica o emotiva, della futura mamma. Man mano che il momento si avvicina, la relazione si fa più intensa, rassicurante e sollecita. Poi arrivano i segnali del travaglio, il che comporta la creazione di un filo comunicativo continuo, fino a quando questo si avvia ed evolve. L’ostetrica raggiunge la donna in tutte le situazioni in cui essa avverta la necessità di averla fisicamente accanto, ma durante il travaglio la vicinanza diventa permanente: si valuta la situazione, rilevando il benessere di mamma e bambino, si prepara il materiale necessario per gestire tutte le fasi del parto e, con particolare cura, si dispone l’ambiente in modo da renderlo nel contempo funzionale e accogliente. Si telefona all’ospedale più vicino e al 118 per comunicare che si ha una donna in travaglio, per cui entrambi restano a disposizione in caso di bisogno. Se tutto procede con regolarità, si arriva al parto, luci soffuse e silenzio rispettoso di tutti, ma in tutto questo tempo l’ostetrica compie gesti apparentemente di poco conto, che però sono essenziali per garantire serenità e sicurezza all’evento, senza turbarlo.

Papà è stato istruito su come praticare massaggi che leniscono il dolore e mantengono la vicinanza fisica con la sua compagna. Ecco che la testolina fa capolino, e lentamente il bimbo reclama il suo spazio nel mondo: manipolazione ridotta al minimo, delicata, e via, sulla pancia della mamma, a ritrovare calore e contatto appena lasciati, ascoltare la sua voce e quella di papà, immergersi nelle emozioni intense di un attimo irripetibile, che sono di tutti, anche dell’ostetrica! Silenzio, sguardi, odori, suoni, proprio tutti i sensi sono coinvolti. Pian piano, si afferma la nuova condizione per la donna, che da figlia diventa madre, così come l’uomo diventa padre, e per il piccolo che incarna la nuova vita e genera sempre meraviglia, senso di sacro e non del tutto comprensibile, perciò bisognoso di rispetto assoluto.

Dopo il parto, con caaalma, il piccino si attacca al seno, poi un bel bagno caldo, sostenuto dalle mani di mamma e papà, le foto, qualcosa da mangiare (la neomamma è affamatissima!!), un bel caffè per l’ostetrica e papà, le telefonate alle famiglie, la sistemazione dell’ambiente, la telefonata dell’ostetrica a ospedale e 118 per comunicare l’avvenuta nascita e ringraziare. Dopo alcune ore, controllo attento delle condizioni di donna e neonato, poi mamy si fa una bella doccia rigenerante e si può lasciare questa situazione così naturale e serena per qualche ora.

Quindi, per alcuni giorni consecutivi l’ostetrica torna a verificare che tutto proceda bene, annotando sulla cartella ciò che verrebbe annotato in ospedale; le visite di diradano, una alla settimana fino al mese di vita del bambino e disponibilità in qualunque momento sia necessaria per la mamma. Alla fine del percorso, bilancio dell’adattamento alla nuova condizione, della salute di entrambi, valutazione dell’allattamento (sempre al seno a domicilio!), del perineo materno ed eventuale impostazione di un lavoro muscolare di recupero, anche addominale, consulenza contraccettiva e molto altro…compresa una relazione forte, affettuosa, che non si interromperà mai.

Come in ospedale? 😉

Dopo il cesareo, voglio partorire

Si parla sempre più spesso di VBAC (acronimo inglese per intendere il parto vaginale dopo taglio cesareo), e molte informazioni in proposito si possono leggere sul post dedicato (*), ma cosa meglio delle parole di una donna che ha seguito il percorso per giungere a vivere l’esperienza reale di far nascere il suo bambino con un parto spontaneo, a seguito di un’esperienza precedente esitata in un cesareo, può non solo permettere alle altre donne di prendere atto della concreta possibilità che un obiettivo del genere si realizzi, ma tranquillizzarle e supportarle nella loro decisione almeno di provarci.

Così ho chiesto a Laura se aveva voglia di scrivere, buttare giù immagini ed emozioni scaturite dalla sua recente maternità.

Mi ha presa in parola, e credo abbia impiegato non più di 10 minuti a battere sulla tastiera questi bei pensieri… 😉

” Quattro anni e mezzo fa mi sono trovata a vivere un’esperienza che mi ha lasciato un segno profondo nell’anima. L’11 maggio 2010 è nato Alessandro, il mio primo figlio. Alessandro é nato con taglio cesareo dopo 15 ore di travaglio, per mancata progressione (la testa non scendeva). La nascita di quel frugoletto è stata accompagnata da emozioni contrastanti, gioia da un lato e senso di colpa dall’altro. Senso di colpa dovuto al fatto che in me c’era la sensazione di aver mollato, di non essermi impegnata abbastanza per farlo nascere spontaneamente, come tanto avevo desiderato.

Con il passare degli anni è subentrata la consapevolezza che forse non era tutta colpa mia, se di “colpa” si può parlare: non ero stata sostenuta nel portare a termine un parto spontaneo, non avevo saputo ascoltare il mio corpo e non ero riuscita a farmi ascoltare, annichilita da una situazione sconosciuta.

In occasione della mia seconda gravidanza, sono riemersi i vissuti traumatici del primo parto, ma questa volta ero decisa a non lasciare che le cose accadessero senza che io facessi nulla. Con l’avvicinarsi della data presunta mi sono confrontata con alcune ostetriche per rimettere mano alla mia storia e farmi consigliare in vista del nuovo travaglio. Sono stata ascoltata, finalmente.

Io volevo, se le condizioni lo avessero permesso, provare l’emozione di un parto naturale.

Il 30 aprile, alle 00:30 ho rotto le acque e mi sono recata in ospedale, accompagnata da mio marito, con cui avevo parlato a lungo del mio bisogno di essere sostenuta, anche da lui. Durante quella lunga notte c’è stato l’Incontro con Giada, l’ostetrica che “mi è entrata nella testa”.

Dopo averle raccontato la mia storia e averle espresso il mio immenso desiderio di un parto spontaneo e l’enorme paura di “fallire” di nuovo, le ho fatto richieste specifiche: volevo essere informata su quello che succedeva, su come stavamo procedendo, volevo una scansione temporale  che mi aiutasse ad orientarmi.

“Parlami, ho bisogno di questo”. “Ok”. È stata la sua semplice risposta, e non è mai venuta meno a questa promessa. Mi ha presa per mano, non solo fisicamente, mi ha sostenuta, incitata, non mi ha mai lasciata. Quando, presa dallo sconforto e dalla stanchezza, dopo 17 ore che sembravano mille, ero in preda agli spettri del passato, mi ha accolto, accettando la mia resa senza giudizio. Poi la natura ha fatto il resto e sono cominciate le spinte. Dopo due ore, alle 19 in punto è nata Aurora, 3800 grammi per 52 cm. Mi sono sentita onnipotente, c’eravamo riusciti! Io, Gabriele e…Giada.

È stata un’esperienza fortissima. Ho toccato il fondo e sono risalita.

Ho bonificato la mia immagine di donna che sa, può, riesce a partorire. Tutto ciò grazie a mio marito, che mi avrebbe sostenuta qualsiasi fosse stata la mia scelta e grazie ad una sconosciuta che per la durata del suo turno di lavoro è diventata la mia ancora, sostenendomi, ma soprattutto rispettandomi come donna prima che come madre.

Ho scritto di getto, non é tecnico, ma molto personale, intimo”…

E molto personale e intimo doveva essere, brava Laura! Non manca nulla, in questa testimonianza: il desiderio, la presa di coscienza, la determinazione di voler capire come fare, semplicemente chiedendo a un’ostetrica conosciuta, poi a un’altra in un ospedale disponibile e attento alle sue richieste (esistono, sì!), l’immersione nella corrente della nuova esperienza, travolta a tratti ma sempre consapevole di avere un’alleata preziosa in Giada, la sua “ancora” discreta e capace di ascoltare come di spiegare e assecondare. Il tutto, nella sicurezza di un ambiente protetto in cui le persone si sono messe a disposizione del desiderio, la prima e più potente molla da cui il resto è scaturito…

(*) – https://intornoallanascita.com/2013/07/10/partorire-dopo-un-cesareo/

Quando si nasce in casa

Solleva tantissime curiosità, la nascita in casa…a partire dallo sgranare gli occhi, commentando “Ma si usa ancora?”, per proseguire con domande sulla sicurezza, su come ci si organizza, e se si sporca tanto, e come fa la mamma a occuparsi del bebè, quindi si finisce quasi sempre con un “Che bello, però!”…

Già, che bello: proprio così, è un’esperienza tanto singolare e intensa quanto naturale per tutti, mamma, papà, ostetriche, nonni, fratellini e sorelline, vicini di casa. Ciascuno ha qualcosa da dire, da imparare, da riportare agli altri, da condividere, nessuno escluso.

La donna contatta l’ostetrica in gravidanza, e insieme al suo compagno si fa una prima, bella chiacchierata informativa; se vuole, si fa seguire da lei e finchè tutto rientra nella norma ci si incontra una volta al mese, nella sua casa, tra una tazza di the, la compilazione dei documenti di rito e la messa a punto degli aspetti organizzativi. Il materiale da predisporre per il parto è poca roba, le incombenze per il quasipapà limitate ma importanti, e pian pianino ci si avvicina al momento, preparando il corpo e la mente in maniera appropriata. Tutti i dettagli vengono ben pianificati, e quando le contrazioni arrivano, una chiamata a qualunque ora e l’ostetrica parte con i suoi borsoni. Il controllo del battito del pupo, la visita per verificare a che punto ci si trova, la chiamata di comunicazione alla sala parto dell’ospedale di riferimento in caso di necessità e al 118: due chiacchiere cortesi con gli operatori, che fanno gli auguri alla quasimamma e restano disponibili fino a dopo il parto.

Poi la disposizione di ciò che serve per accogliere il piccolo, dell’ambiente per creare intimità e comfort, del necessario per assistere materialmente tutte le fasi del parto, con calma, luci soffuse, magari una musica di sottofondo e una candelina profumata accesa. Se la stagione è fredda, si riscalda un pò di più la stanza in cui avverrà l’evento, quindi ci si concentra in silenzio sul travaglio, sulla mamy che affronta questa prova cruciale destinata a cambiare la sua esistenza, coinvolgendo il papà che armeggia con olio e massaggi sulla schiena ad ogni contrazione, e coccola e abbraccia.

Ogni tanto ci scappa un caffè per l’ostetrica, specie durante la notte! 😉

Poi arriva finalmente il tanto atteso “sento spingere”, e allora ci si prepara proprio tutti all’accoglienza, nel rispetto dei tempi necessari a mamma e bimbo per giungere al distacco, preludio all’esplosione di gioia somigliante ad una scarica potente di energia che colpisce ogni cellula del corpo, invade la mente e la annebbia nella felicità…

Il neonato è lì, sulla pancia e tra le braccia della mamma, coccolata a sua volta da papà, in un tempo sospeso di emozioni che annichiliscono, poi il piccino cerca il seno, succhia con vigore, si appaga e rasserena: non gli è stato sottratto nulla, tutto resta, solamente in un’altra forma.

La vita prosegue: chi armeggia con le foto, chi ha bisogno di silenzio assoluto, chi sente l’impellenza di dirlo al mondo con tutti i mezzi tecnologici a disposizione, chi chiama i fratellini a vedere e toccare il miracolo di un cucciolo roseo appiccicato alla pancia della mamma e riscaldato dal suo tepore: ciascuno può trovare il proprio personale modo di vivere questo momento, in libertà.

Con calma si prepara una vaschetta di acqua calda, e i neogenitori si cimentano con l’immersione del piccolo, giocando e contemplandolo per un pò, fino a quando si rilassa, poi lo si veste insieme e nanna tra le braccia, nel lettone. Mamma ha una fame vorace, e le si prepara un buon pasto energetico.

Nel frattempo, l’ostetrica sbriga varie faccende (tante!) tenendo d’occhio la situazione; dopo qualche ora, controlla che tutto sia tranquillo e se ne va, per tornare a visitare la mamy e il neonato nei giorni seguenti, e fino a un mese dal parto. Semplice, no?… 🙂

Neonato e neonati

“Il saggio che vuole cambiare il mondo deve guardare verso il neonato. La vera civiltà inizierà il giorno in cui il benessere di un neonato prevarrà su ogni altra considerazione” (W. Reich)

Osservare un cucciolo umano appena uscito dal grembo materno trasmette qualcosa di indefinibile, perchè oltre alla meraviglia che cattura lo sguardo e la mente, entrano in gioco emozioni profonde, domande che affiorano sulla natura di questo esserino dalle forme perfette, ma privo dell’esperienza di vita che invece l’osservatore ha stipato nel suo bagaglio esistenziale.  Gli occhioni aperti sul mondo parrebbero sollecitare sentimenti di protezione, rispetto e cura amorevole, e null’altro.

Eppure questa visione del neonato, che per molti (non per tutti!) sembra scontata ai nostri giorni, si impone solamente alla fine del Seicento, poichè “fino a quel periodo l’nfanzia non veniva considerata un’età positiva, dotata di valore proprio. L’alto tasso di mortalità infantile spingeva alla prudenza, e a considerare i bambini come esseri precari. Per di più l’infanzia non presentava alcun interesse specifico: non era altro che il passaggio obbligato verso quel momento razionale in cui l’uomo si rivelava dotato di pensiero. Fu con Jean-Jacques Rousseau che la considerazione per l’infanzia mutò radicalmente: essa non era più un periodo della vita privo di valore, ma andava valutata in quanto tale, dotata di una propria finalità. Per Rousseau, l’infanzia andava rispettata per quello che era , non negata come si tendeva a fare nei secoli addietro” (*).

Queste idee daranno vita a un movimento che a fine Ottocento prenderà piede e di cui raccogliamo oggi l’eredità, pur procedendo con molta lentezza, dal momento che sollecita attenzione nei confronti del bambino fin dalla sua nascita.

Rousseau, ad esempio, condanna l’uso imperante di costringerlo in fasce, che aveva radici remotissime ed è perdurato fino al XX secolo, restando ancora attuale in alcune aree del pianeta. Antiche statuine risalenti fino al sesto secolo a.C. e conservate al Museo Archeologico di Capua raffigurano la divinità italica dell’aurora e delle nascite Mater Matuta, che tiene in braccio neonati in fasce. Nel Santuario di Vulci, in Etruria, sono state rinvenute statuine di terracotta di neonati avvolti da bende a spirale e con il capo coperto, così come nel Museo Archeologico di Atene una statuetta rappresenta un neonato avvolto strettamente in un lungo nastro, e monete romane mostrano piccoli fasciati tenuti in braccio dalla Dea protettrice del parto, Giunone Lucina.

La fasciatura aveva molteplici scopi: consentiva di “plasmare” lo sviluppo fisico del piccolo, tenerlo al caldo e facilitarne la manipolazione e il trasporto.

Plinio, nella sua “Storia Naturale” scritta nel secondo secolo d.C., descrive così la condizione neonatale:

“Appena uscito dal seno della madre e appena in grado di muoversi e di stendere le membra, il bambino viene imprigionato in nuovi legami. Lo infagottano nelle fasce, lo coricano con la testa immobilizzata, con le gambe allungate, con le braccia pendenti lungo il corpo; lo avvoltolano in pannolini e in bende di ogni genere, che non gli consentono di mutar posizione. Felice lui se non lo hanno stretto al punto da soffocarlo, se hanno avuto la precauzione di coricarlo su un fianco perchè il liquido che deve rovesciare dalla bocca possa cadere spontaneamente!”…

Rousseau, nel 1762 propone invece di mutare abitudini e di abbandonare la fasciatura:

“Il neonato ha bisogno di distendere e muovere le membra, per liberarle dal torpore in cui sono restate per tanto tempo. Se ne impedisce il movimento, e persino la testa viene imprigionata da cuffie, quasi si avesse paura di vedere in lui il minimo segno di vita. Così, in un corpo che tende a svilupparsi vengono totalmente ostacolati i liberi movimenti che l’impulso vitale delle sue parti interne richiede. Il bambino compie senza posa inutili sforzi che esauriscono le sue energie e ne ritardano lo sviluppo. Era meno stretto, meno impacciato e meno compresso nel seno materno che non nelle fasce”

Molta strada è stata percorsa, ma ancora tanta, tantissima ne resta da battere…

Come trattiamo i neonati, nelle nostre società ipertecnologiche?  Mica tanto bene: li separiamo troppo spesso dalle madri subito dopo il parto, li invadiamo di luci e suoni, con manipolazioni rudi e interventi sanitari di dubbia utilità, e soprattutto lasciamo sole le neomamme, i padri, il nuovo e delicato nucleo famigliare alle prese con la solitudine e lo smarrimento.

Forse tornare a “fasciare” i bebè, ma anche le donne, con attenzioni rispettose e affettuose, sarebbe l’intervento sanitario e sociale migliore, quello che, come suggerisce la bella riflessione di apertura, davvero produrrebbe i risultati di salute e di evoluzione della civiltà più efficaci nel breve, medio e lungo termine…

(*) – da “Nascere, e poi?” – D.Candilis-Huisman – ed.Universale Electa Gallimard 

Donne e superdonne, mamme e supermamme

“Ce la possiamo fare”, recita questo vecchio manifesto di cui ho scovato la storia, interessante (http://www.archiviocaltari.it/2011/01/27/we-can-do-it-storia-di-unimmagine/), e che si presta bene a raffigurare un certo modo di concepire la propria immagine, caratteristico di un discreto numero di donne, che già nella gestione della vita quotidiana rivendicano l’autonomia assoluta, il “ce la faccio da sola”.

Quando poi sopraggiunge una gravidanza, il pensiero resta immutabile: “ho bisogno di niente e nessuno”, fino al giro di boa della protuberanza addominale che ingombra, sbatte contro gli spigoli, fatica a infilarsi nell’ascensore… Capita che ogni mezz’ora tocca svuotare la vescica, rigirarsi nel letto diventa movimento lento e a scatti, scendere dal medesimo un gioco di puntelli di gomiti, fare la doccia cauto ingresso nel box e altrettanto guardinga uscita, con l’accappatoio che non ce la fa a contenere la rotondità. Ci si ride pure sopra con gusto, ma lì le certezze titaniche vacillano, seppur poco: inizia a farsi strada un “ce la farò, anche se a fatica”, e via.

Infine, nasce il pupo e l’adrenalina governa per qualche giorno ogni percezione della realtà, in buona compagnia con altri ormoni. Ma a un certo punto, occorre prendere atto dell’effettivo cambiamento delle carte sul tavolo, e del fatto che la vita ha subito una svolta: un neonato è impegnativo, il parto (specie se non è stato propriamente agevole) è evento che può sottrarre molte energie, i ritmi abituali restano sconvolti tanto più quanto è maggiore l’assenza di sostegno pratico ed emotivo.

Una sbirciatina a questo post è utile: https://intornoallanascita.com/2012/09/23/la-fatica-dellaccudimento

Dunque, donne, lasciatevi invadere senza timori dall’idea che qualcuno diverso dal neopadre vi stia accanto, anche solo per qualche ora ogni tanto, si tratti di amiche, nonne, zie, o altre figure, consigliandovi e  supportandovi nelle incombenze quotidiane, perchè nulla come la stanchezza fisica e/o mentale può compromettere in maniera consistente l’adattamento graduale alla nuova condizione di madre, la relazione con il cucciolo, l’intimità di coppia, lo stare bene con gli altri e nel mondo. Trovare qualche piccolo spazio per sè stesse, poi, diventa arduo, ma ce la si può fare (*).

E non dimenticate che l’ostetrica può trasmettere tanto, anche in poco tempo, fornendo un aiuto preziosissssimo per organizzarsi senza sprecare energie, e rasserenarsi nelle situazioni difficili !! 😉

(*) – https://intornoallanascita.com/2013/08/26/un-oretta-tutta-per-me/

 

 

Letture sotto l’ombrellone

Un piccolo consiglio di lettura, assai singolare, che mette insieme il racconto di vita vissuta, l’ironia, la tragicità, la bellezza e la tenacia della vita stessa, una professione difficile e speciale come quella dell’ostetrica e la meraviglia della nascita, pur se spesso circondata dal disagio. Non sempre un bambino nasce desiderato, come vorremmo che fosse, anzi! Ancora nel terzo millennio su questo pianeta buona parte degli umani vede la luce per caso, disgrazia, incidente di percorso, pura biologia, e il destino di ognuno resta segnato dal luogo e dalle condizioni socio-economiche che trova quando fa capolino dal ventre materno. Leggere “Chiamate la levatrice” (*) apre una finestra sulla realtà di quel periodo triste, in una città che si fatica persino a riconoscere in quella che attualmente si presenta ai nostri occhi.

Il librino lo ha scritto Jennifer Worth, personalità variegata, infermiera/levatrice (secondo il termine in uso all’epoca) nella Londra degli anni’50, successivi a una guerra sanguinosa e devastante, poi musicista e infine, ispirata dai ricordi, scrittrice di una trilogia di cui fa parte questo testo, l’unico al momento tradotto in italiano. E per chi volesse anche appagare il bisogno di immagini, c’è pure la versione televisiva, che nel Regno Unito ha avuto un record inaspettato di ascolti e in Italia viene trasmessa da Retequattro (**).

Dalla scheda dell’editore (Sellerio):
“La cronaca, quasi un diario, delle giornate di una levatrice nell’East Side di Londra inizi anni Cinquanta. Con lei si entra nella realtà delle Docklands, vite proletarie che sembrano immagini della plebe ottocentesca più che cittadini lavoratori del democratico Novecento. Si entra in questa desolazione impensabile con una voglia di verità quotidiana raramente riscontrabile in un libro, ma anche con una rispettosa allegria, con la sicura fiducia che quel mondo stia per finire, senza rimpianti, grazie ai radicali cambiamenti apportati dal Sistema sanitario nazionale appena nato. Come poi fu, almeno fino ad oggi.
La fresca verve di Jennifer Worth, nel trattare una materia così cruda, crea una formula ingegnosa (e di grande successo sia letterario che come fiction televisiva). L’eroismo quotidiano di interventi clinici spesso drammatici, si mescola alla denuncia sociale, alla fiamma inestinguibile dei sentimenti umani, e alla ricchissima quantità di storie e ritratti. Accanto a questi, la galleria, tenera, nobile e a tratti comica, delle giovani levatrici e delle suore del convento di Nonnatus House, da cui le ragazze dipendevano professionalmente e dove abitavano. Su questa testimonianza aleggia un lieve «effetto Dickens» con un tocco di innocente gaiezza, che però non nasconde un monito evidente a favore delle politiche sociali solidaristiche, a non smantellare, per la scarsa memoria del passato, gli strumenti che hanno permesso di diffondere dignità umana.”

Buona lettura e buone vacanze, comunque e dovunque si svolgano!! 🙂

 

(*)  – sellerio.it/it/catalogo/Chiamate-Levatrice/Worth/7354

(**) – http://www.mediaset.it/rete4/articoli/l-amore-e-la-vita-call-the-midwife-2_542.shtml

 

 

 

 

 

 

Una lingua, tante lingue, mille storie: donne straniere in Italia

Lingua madre, si chiama. “Madre”, così dolce e intimo, così carico di significati simbolici. Nella lingua stanno parole, frasi, concetti, emozioni che riportano alla madre. Emozioni: da ciascuna nasce la parola, non potrebbe essere altrimenti per il bambino che impara a comunicare. Da quel momento e per la vita, la lingua appresa nell’infanzia circonda i pensieri e gli dà forma. Ma cosa succede se le circostanze dell’esistenza sradicano dal rassicurante terreno della propria lingua madre, catapultando in una dimensione estranea, incomprensibile, dove scompaiono quei riferimenti certi della comunicazione che sono le parole, combinate a comporre suoni familiari che scandiscono la consuetudine e il fluire del tempo?

Succede che la quotidianità dell’esistenza viene stravolta, consegnata all’inquietudine di giorni sempre diversi, in cui far tornare i conti della propria identità spezzata e confusa con quelli del bisogno di sopravvivere in ogni modo, ricostruendo dentro di sè a poco a poco e con fatica piccole certezze, frammenti della vita lasciata alle spalle sbalzati in dimensioni estranee, dove nulla sembra essere più decifrabile, eppure diventa obbligatorio ripensarli, ricrearli, rimetterli insieme… Se poi a vivere tutto questo sono le donne, allora anche l’esperienza di un disagio così grande diventa “di genere”: si può individuare un malessere specifico al maschile o al femminile, connesso con lo sradicamento geografico e culturale? Certamente si, e chiunque può osservarlo nelle sue manifestazioni semplicemente guardandosi intorno, cercando di decifrare la realtà che cambia sotto gli occhi ben più rapidamente di quanto si possa pensare.

Così, nella mia vita di ostetrica è successo che siano entrate e uscite tante di queste donne: ciascuna portava con sè la sua vita, le sue speranze e anche le disillusioni, le sofferenze e la gioia, a volte l’apparente indifferenza verso il mondo, ma tutte avevano per denominatore comune il bisogno smisurato di trovare ascolto e condivisione. Per una donna straniera, già provata dal disagio di trovarsi in un contesto sociale, culturale e linguistico sconosciuto, l’ingresso in una struttura sanitaria con regole, divieti, routine e pratiche cliniche così estranee alla sua esperienza rappresenta una fonte di malessere supplementare. Tante sono rimaste nella mia mente, e ancora mi chiedo che fine avranno fatto, cosa gli avrà riservato lo scorrere del tempo…

Cela, albanese di trent’anni, bella e dolce, parla un italiano corretto ed è accompagnata da un distinto signore italiano molto più vecchio di lei: ha una perdita di sangue molesta, continua, un malessere fisico indecifrabile; sta cercando di avere un figlio con quest’uomo affettuoso che la accarezza e le tiene la mano durante la visita. Le viene diagnosticato un tumore uterino in fase avanzata; mi fermo a parlare con lei, siamo sole. Dopo una iniziale ritrosia mi racconta di sè: basso livello di istruzione, violentata a 15 anni nel suo paese di origine, rimane incinta e viene costretta ad abortire in condizioni igieniche disastrose; segue un’infezione gravissima da cui esce viva per miracolo: le resta una cicatrice devastante sull’addome, uno sfregio tremendo sul corpo esile, ma è viva. Giunge in Italia con la promessa di un lavoro, finisce a prostituirsi, un aborto dopo l’altro, non si ricorda nemmeno quanti, quindici o venti, tutti clandestini, i clienti non vogliono il preservativo ma gli sfruttatori reclamano il denaro. La vita scandita dalle violenze, fino a quando il distinto signore italiano la toglie dalla strada…Ora è qui: una pena infinita, le accarezzo la mano e resto in silenzio, lei si lascia andare alle lacrime e parla sottovoce, nella sua lingua…

Amira, tunisina, vent’anni, esilissima e vestita con abiti occidentali, diploma di scuola superiore conseguito nel suo paese, si esprime in buon italiano; arriva all’inizio del travaglio accompagnata dal marito, anch’egli tunisino e di poco più vecchio. Sorridono tanto, sono teneri, sempre in contatto fisico tra loro ma tesi, spaventati. Il travaglio procede con grande lentezza, è notte e la stanchezza si fa sentire. Le contrazioni aumentano di intensità, Amira chiede aiuto, si aggrappa a me con forza quasi aggressiva, teme il taglio cesareo perchè proviene da una cultura in cui una donna deve dare dimostrazione della sua capacità di far nascere un figlio per le vie naturali. La rassicuro sul fatto che tutto procede bene e la invito a lasciarsi andare, la metto a suo agio come posso, con un the caldo, un massaggio sulla schiena…Ad un certo punto inizia a invocare nella sua lingua, ripetendo come un mantra le stesse parole. Chiedo al marito di tradurre: si sta rivolgendo alla madre lontana, chiedendole di aiutarla. Come può farlo se non nella sua lingua madre? Finalmente si rilassa e il travaglio accelera, fino a quando il piccolo fa capolino e apre i suoi occhi sul mondo: la gioia è in arabo, e non potrebbe essere altrimenti…

Tuttavia, la prima volta poteva essere casuale, ma la seconda comincio a pormi una domanda: possibile che la lingua d’origine irrompa in maniera spontanea quando l’emotività diventa intensa e l’istinto prende il sopravvento sulla parte razionale del nostro essere? Decido di prestare maggior attenzione, ed ecco che altre storie ed altre lingue si susseguono, restando impresse nella mia mente come frammenti indelebili del mio percorso umano e professionale.

Yuna, cinese di 19 anni, giunta al seguito di un imprenditore italiano sessantacinquenne che ha impiantato una filiale in Cina: è timidissima, parla italiano con discreta padronanza, ma a tenere le redini della conversazione è lui, rustico, verboso e caciarone. Dal momento del ricovero in poi, alle domande risponde istintivamente, senza nemmeno lasciare alla ragazza il tempo per dire la sua. Cerco un momento di intimità con lei, allontanando il compagno con uno stratagemma. Mi racconta brevemente la sua storia: ha iniziato a lavorare nell’azienda in Cina, come tuttofare, insieme a numerose altre giovani coetanee, poi la richiesta di trasferirsi in Italia, ed ora un figlio in arrivo. Torna il quasi-padre: non gli ho chiesto alcunchè, ma sente di dovermi rendere partecipe delle sue vicende personali. Si è separato molti anni prima dalla moglie italiana, da cui ha avuto due figli ormai più che adulti. Con la fierezza di un gallo cedrone mi sottolinea che lui, di ragazze cinesi, ne ha portate due, in Italia: “sa, sono talmente ubbidienti, si accontentano, accettano qualunque cosa e tacciono…potrei portarmene quante voglio, d’altronde arrivano dalla miseria, qui fanno vita da regine!”. Due, chiedo, dove stanno? Che domanda, a casa sua, vivono tranquillamente insieme, sotto lo stesso tetto: per loro non fa problema, mica come per noi…Sanno fare tutto, e tengono pure la contabilità! Yuna continua il suo travaglio in silenzio, gli occhi parlano di malinconia e rassegnazione bilanciate almeno in parte da una rassicurante agiatezza; quando le doglie si fanno più intense, inizia a lamentarsi sommessamente con voce sottile, acuta e suoni ritmici scanditi nella sua lingua. Chiedo a lui di tradurre: sta invocando l’aiuto di sua madre. Nasce una bimba, piccina, faccino tondo e occhi allungati; mi chiedo quale sarà la sua sorte, ma pensando ai milioni di bimbe cinesi soppresse nel tempo per lasciare il posto al figlio maschio, mi conforta il fatto che almeno a lei la vita sarà concessa. Yuna l’abbraccia stretta, inizia a parlarle sottovoce nella sua lingua musicale, come se fossero all’interno di una bolla da cui lui, il “sultano”, pare escluso…

Olga è una donna che dimostra molto più dell’età anagrafica: è provata in maniera evidente dalla fatica di vivere e dalla sua storia. Si esprime in un italiano incerto ed elementare. Sradicata dalla Moldavia per tentare una vita diversa approda in Italia, dove cerca di sopravvivere da cinque anni facendo la domestica. Ha lasciato nella sua terra un marito che annega nell’alcool il suo disagio e una figlia adolescente, vista l’ultima volta un anno prima. Entrambi vivono in una stamberga alla periferia di una cittadina. Ora è in travaglio, appesantita da una gravidanza imprevista. Arriva accompagnata da un’amica, e poco dopo il ricovero mi dice che il bambino non lo può tenere, quindi andrà in adozione. Provo a sondare la sua decisione e a capire se ha pensato a tutte le opzioni possibili, ma è determinata: i datori di lavoro la riaccoglieranno dopo il parto, ma da sola, e in ogni caso non può permettersi di accudire e mantenere un altro figlio, dal momento che la famiglia rimasta in Moldavia dipende in gran parte dalle piccole somme di denaro che lei riesce a racimolare e spedire periodicamente. Non lascia trasparire emozioni, non si lamenta e fissa con sguardo vuoto la parete davanti a sè nelle pause tra le contrazioni. Ogni tanto parliamo di piccole cose, molto elementari. Partorisce un maschio ed evita di guardarlo, ben sapendo che dovrò farlo portare via al più presto. Pronuncia parole per me incomprensibili, nella sua lingua, con tono mesto e sottovoce ma con fermezza. Le chiedo se ha cambiato idea e le ricordo che potrà ancora farlo, ma mi risponde che no, non si può, che solo così il bambino potrà avere una vita normale e lei anche…Una vita normale? Mi soffermo a pensare a quanto può essere “normale” l’esistenza di questa donna, apparentemente così distaccata da quanto sta vivendo. Cerco di restarle accanto e di sostenerla nella sua fatica, che certamente è grande. Compilo il certificato di assistenza al parto con la dicitura “madre che non intende essere nominata”. Mi coglie una curiosità: quanti sono i bambini partoriti in anonimato in Italia? Cosa ci dicono le percentuali in proposito? Cerco in rete: il fenomeno è in aumento, e per il 70% riguarda donne straniere. Una nicchia di realtà del nostro Paese che non fa notizia, eppure rappresenta una fetta di sofferenza ed emarginazione che ciascuna delle donne interessate porta su di sè a vita, senza che nessuno ne sia consapevole…

Ela arriva in ospedale verso mezzanotte, in autobus perchè il marito lavora in un cantiere e sarà occupato fino all’alba. E’ polacca, un viso bello e dolce, modi fini e parla un buon italiano. Il travaglio è appena agli inizi ma promette di procedere con rapidità. La notte è tranquilla, le resto vicina e chiedo di poter chiamare il marito perchè possa partecipare all’evento. Mi risponde che non è possibile, ha iniziato a lavorare da poco al cantiere e non può chiedere di assentarsi. Mi racconta la sua storia: è giunta in Italia quattro anni prima insieme a lui; entrambi hanno una laurea, lei in letteratura, lui in ingegneria, ma qui non servono e ci si è dovuti adattare. Lei ha trovato lavoro come domestica, lui salta da un’occupazione all’altra, sempre precarie, senza alcuna tutela e pagate in nero. Mi sale la rabbia e penso che no, non si può pensare di negare ad un uomo il diritto di stare accanto alla sua compagna quando sta per nascergli un figlio, così le chiedo di chiamarlo (hanno un telefono!) e di provare a chiedere se qualcuno lo può portare in ospedale. Il capocantiere storce il naso, ma è un padre…Dopo circa un’ora lo vediamo arrivare, il volto sfatto e le mani rovinate dal cemento, ma felice e commosso. Mi commuovo anch’io e vado in disparte con gli occhi che si inumidiscono, pensando a quanto ingiusta è la vita. All’alba nasce una splendida bimba: entrambi scoppiano in un pianto di felicità e malinconia, dispiaciuti per la lontananza dalle famiglie, parlano fitto tra loro in polacco e si rivolgono alla cucciola con parole dolci e cadenzate. Ela canta una ninnananna nella sua lingua madre. Quando viene dimessa, passa a ringraziarmi con gli occhioni bagnati, dicendomi che in questa circostanza si sono sentiti meno soli e tanto accolti; ci abbracciamo e auguro a tutti una vita di serenità, nonostante tutto…

Lingua madre e lingua acquisita, dunque, occupano un posto ben preciso nella geografia mentale delle persone, questo mi sembra di aver capito; sono le circostanze della vita a determinare il ricorso all’una o all’altra, in maniera istintiva. In ogni caso la conoscenza di un’altra lingua rappresenta una ricchezza. I figli degli immigrati non di rado possiedono la padronanza di almeno una, a volte anche due lingue, oltre a quella italiana: la scienza ci dice che quando i bambini ne apprendono diverse in contemporanea sviluppano un’area del cervello che altrimenti rimarrebbe silente; ciò significa intelligenza più vivace e creativa…Il futuro gli appartiene, senza dubbio.

Sono nata a Torino, da padre siciliano e madre emiliana. Entrambi avevano portato in questa città un bagaglio pieno di speranze, vicende legate alla guerra e sradicamento dalla famiglia di origine, reso obbligatorio dal bisogno di un lavoro. Mio padre, classe 1910, collezionò una doppia mortificazione: da parte della sua famiglia, poichè nella decisione di sposare una donna “del continente” era implicito l’oltraggio alle donne locali, e in seguito per via delle sue origini “terrone”, in un Piemonte bisognoso di braccia ma ancorato ad uno spietato senso della territorialità e dell’appartenenza. Sentirsi apostrofare con termini come “napuli” e “terùn” era frequente per lui, ma anch’io ho potuto sperimentare più volte la grazia di questa sottolineatura malevola, diretta o indiretta, anche da persone dalle quali non me lo sarei aspettato… Di quali armi dotarsi per mitigarla? L’ironia, la tenacia, la capacità guardare oltre, di rielaborare le esperienze attraverso una visione aperta del mondo e l’attribuire valore alle diversità culturali.

Il dialetto siciliano, sporadicamente inframmezzato da spezzoni di quello emiliano, ha rappresentato sempre una componente essenziale dell’atmosfera che si respirava in famiglia, mantenuto vivo soprattutto nei momenti di maggiore carica emotiva, quando riusciva comunque ad essere colorito, nella tristezza come nelle circostanze comiche. Raccontare una storia legata alla propria vita significava farlo usando il dialetto, che sembrava rappresentare una sorta di ancora, un elemento di sostegno e di rassicurante rinforzo identitario, marcando in parallelo la mia appartenenza a luoghi diversi e a nessuno in particolare. Ancora oggi non posso fare a meno di ricordare spesso e con precisione frammenti di quei suoni, quando ho voglia di sentire la presenza di chi non c’è più, mettendo volutamente nel ricordo l’allegria delle parole dialettali pronunciate in questa o quella situazione e il piacere di riascoltarle, marcandone così il valore profondo.

Per questo motivo mi è particolarmente caro Andrea Camilleri, che con la lingua ha un rapporto peculiare, ricco, coinvolgente e creativo. Nei suoi scritti riconosco molto del linguaggio ascoltato durante l’infanzia. Fu proprio leggendo una sua intervista che mi si aprì una finestra sulle situazioni vissute sia in famiglia che nell’ambito professionale, a conferma delle mie percezioni. In essa si esprimeva così: “A casa parlavamo in dialetto e in italiano. Quand’è che si parlava in dialetto e quando in italiano? Questa è la domanda che mi sono posto e su questo ho cominciato a scrivere. Supportato poi da Pirandello; un giorno scoprii un suo scritto meraviglioso della fine dell’Ottocento, che dice: «Di una data cosa, il dialetto ne esprime il sentimento, della medesima cosa la lingua ne esprime il concetto».

Deve essere così evidentemente, per certi versi, anche riguardo al rapporto tra lingua madre e lingua acquisita, per tutti coloro che lasciano dietro di sè la propria storia per iniziarne una nuova, ma senza fortunatamente recidere del tutto il legame con le radici, che resta ancorato alle parole ma modulato dalle emozioni…

p.s.  I nomi citati sono di fantasia

Leggi anche:

http://www.uppa.it/rubriche/nascere/gravidanza-e-parto/mamme-di-tutti-i-colori

Il desco e la tazza da parto

 

 

 

 

Questo meraviglioso oggetto è un esemplare di desco da parto, dipinto da Pontormo su tavola e conservato agli Uffizi, a Firenze. Risale al 1526 circa, e venne realizzato in occasione della nascita di un bimbo in una famiglia della Firenze dell’epoca. Il desco era un vassoio tondo (da “disco”) in legno, dipinto su entrambi i lati, che durante il Rinascimento veniva offerto come dono cerimoniale alle donne delle famiglie più abbienti che avevano appena partorito; si trattava un oggetto della vita quotidiana delle donne dell’alta società, e con esso si serviva un primo pasto, solitamente un brodino, alla partoriente subito dopo il parto e nei giorni seguenti, fino a quando restava a letto. Vi erano spesso dipinti temi allegorici ben augurali o episodi sacri legati alla natività, e sul retro riportava generalmente elementi araldici propri della famiglia a cui era destinato. Più frequentemente vi si rappresentavano scene inerenti alla nascita di Cristo, alludendo in tal modo alla sacralità della procreazione (scopo delle nozze) nel matrimonio cristiano. Nel corso del cinquecento, questo costoso oggetto venne sostituito gradualmente da tazze in ceramica, le cosiddette tazze da puerpera, decisamente più a buon mercato, che ebbero invece vita assai più lunga.

Particolare curioso, tratto dal bel documento segnalato nel link sottostante: “nel 1940, al concorso nazionale per la ceramica d’arte, riservato a giovani ceramisti, uno dei temi in concorso era proprio un modello moderno di tazza da parto come dono alla puerpera. Questo servizio doveva comprendere la scodella per il brodo, il piatto portauovo con il portasale, il tutto congegnato con un’unica presentazione facilmente scomponibile nelle sue parti”.

Per approfondire:

DAL DESCO DA PARTO ALLA TAZZA DA PUERPERA: SIGNIFICATO E SIMBOLOGIA DI UN OGGETTO LEGATO ALLA NASCITA
Maria Pia Mannini

http://popolazioneestoria.it/article/view/180