Dopo il cesareo, voglio partorire

Si parla sempre più spesso di VBAC (acronimo inglese per intendere il parto vaginale dopo taglio cesareo), e molte informazioni in proposito si possono leggere sul post dedicato (*), ma cosa meglio delle parole di una donna che ha seguito il percorso per giungere a vivere l’esperienza reale di far nascere il suo bambino con un parto spontaneo, a seguito di un’esperienza precedente esitata in un cesareo, può non solo permettere alle altre donne di prendere atto della concreta possibilità che un obiettivo del genere si realizzi, ma tranquillizzarle e supportarle nella loro decisione almeno di provarci.

Così ho chiesto a Laura se aveva voglia di scrivere, buttare giù immagini ed emozioni scaturite dalla sua recente maternità.

Mi ha presa in parola, e credo abbia impiegato non più di 10 minuti a battere sulla tastiera questi bei pensieri… 😉

” Quattro anni e mezzo fa mi sono trovata a vivere un’esperienza che mi ha lasciato un segno profondo nell’anima. L’11 maggio 2010 è nato Alessandro, il mio primo figlio. Alessandro é nato con taglio cesareo dopo 15 ore di travaglio, per mancata progressione (la testa non scendeva). La nascita di quel frugoletto è stata accompagnata da emozioni contrastanti, gioia da un lato e senso di colpa dall’altro. Senso di colpa dovuto al fatto che in me c’era la sensazione di aver mollato, di non essermi impegnata abbastanza per farlo nascere spontaneamente, come tanto avevo desiderato.

Con il passare degli anni è subentrata la consapevolezza che forse non era tutta colpa mia, se di “colpa” si può parlare: non ero stata sostenuta nel portare a termine un parto spontaneo, non avevo saputo ascoltare il mio corpo e non ero riuscita a farmi ascoltare, annichilita da una situazione sconosciuta.

In occasione della mia seconda gravidanza, sono riemersi i vissuti traumatici del primo parto, ma questa volta ero decisa a non lasciare che le cose accadessero senza che io facessi nulla. Con l’avvicinarsi della data presunta mi sono confrontata con alcune ostetriche per rimettere mano alla mia storia e farmi consigliare in vista del nuovo travaglio. Sono stata ascoltata, finalmente.

Io volevo, se le condizioni lo avessero permesso, provare l’emozione di un parto naturale.

Il 30 aprile, alle 00:30 ho rotto le acque e mi sono recata in ospedale, accompagnata da mio marito, con cui avevo parlato a lungo del mio bisogno di essere sostenuta, anche da lui. Durante quella lunga notte c’è stato l’Incontro con Giada, l’ostetrica che “mi è entrata nella testa”.

Dopo averle raccontato la mia storia e averle espresso il mio immenso desiderio di un parto spontaneo e l’enorme paura di “fallire” di nuovo, le ho fatto richieste specifiche: volevo essere informata su quello che succedeva, su come stavamo procedendo, volevo una scansione temporale  che mi aiutasse ad orientarmi.

“Parlami, ho bisogno di questo”. “Ok”. È stata la sua semplice risposta, e non è mai venuta meno a questa promessa. Mi ha presa per mano, non solo fisicamente, mi ha sostenuta, incitata, non mi ha mai lasciata. Quando, presa dallo sconforto e dalla stanchezza, dopo 17 ore che sembravano mille, ero in preda agli spettri del passato, mi ha accolto, accettando la mia resa senza giudizio. Poi la natura ha fatto il resto e sono cominciate le spinte. Dopo due ore, alle 19 in punto è nata Aurora, 3800 grammi per 52 cm. Mi sono sentita onnipotente, c’eravamo riusciti! Io, Gabriele e…Giada.

È stata un’esperienza fortissima. Ho toccato il fondo e sono risalita.

Ho bonificato la mia immagine di donna che sa, può, riesce a partorire. Tutto ciò grazie a mio marito, che mi avrebbe sostenuta qualsiasi fosse stata la mia scelta e grazie ad una sconosciuta che per la durata del suo turno di lavoro è diventata la mia ancora, sostenendomi, ma soprattutto rispettandomi come donna prima che come madre.

Ho scritto di getto, non é tecnico, ma molto personale, intimo”…

E molto personale e intimo doveva essere, brava Laura! Non manca nulla, in questa testimonianza: il desiderio, la presa di coscienza, la determinazione di voler capire come fare, semplicemente chiedendo a un’ostetrica conosciuta, poi a un’altra in un ospedale disponibile e attento alle sue richieste (esistono, sì!), l’immersione nella corrente della nuova esperienza, travolta a tratti ma sempre consapevole di avere un’alleata preziosa in Giada, la sua “ancora” discreta e capace di ascoltare come di spiegare e assecondare. Il tutto, nella sicurezza di un ambiente protetto in cui le persone si sono messe a disposizione del desiderio, la prima e più potente molla da cui il resto è scaturito…

(*) – https://intornoallanascita.com/2013/07/10/partorire-dopo-un-cesareo/

Quando si nasce in casa

Solleva tantissime curiosità, la nascita in casa…a partire dallo sgranare gli occhi, commentando “Ma si usa ancora?”, per proseguire con domande sulla sicurezza, su come ci si organizza, e se si sporca tanto, e come fa la mamma a occuparsi del bebè, quindi si finisce quasi sempre con un “Che bello, però!”…

Già, che bello: proprio così, è un’esperienza tanto singolare e intensa quanto naturale per tutti, mamma, papà, ostetriche, nonni, fratellini e sorelline, vicini di casa. Ciascuno ha qualcosa da dire, da imparare, da riportare agli altri, da condividere, nessuno escluso.

La donna contatta l’ostetrica in gravidanza, e insieme al suo compagno si fa una prima, bella chiacchierata informativa; se vuole, si fa seguire da lei e finchè tutto rientra nella norma ci si incontra una volta al mese, nella sua casa, tra una tazza di the, la compilazione dei documenti di rito e la messa a punto degli aspetti organizzativi. Il materiale da predisporre per il parto è poca roba, le incombenze per il quasipapà limitate ma importanti, e pian pianino ci si avvicina al momento, preparando il corpo e la mente in maniera appropriata. Tutti i dettagli vengono ben pianificati, e quando le contrazioni arrivano, una chiamata a qualunque ora e l’ostetrica parte con i suoi borsoni. Il controllo del battito del pupo, la visita per verificare a che punto ci si trova, la chiamata di comunicazione alla sala parto dell’ospedale di riferimento in caso di necessità e al 118: due chiacchiere cortesi con gli operatori, che fanno gli auguri alla quasimamma e restano disponibili fino a dopo il parto.

Poi la disposizione di ciò che serve per accogliere il piccolo, dell’ambiente per creare intimità e comfort, del necessario per assistere materialmente tutte le fasi del parto, con calma, luci soffuse, magari una musica di sottofondo e una candelina profumata accesa. Se la stagione è fredda, si riscalda un pò di più la stanza in cui avverrà l’evento, quindi ci si concentra in silenzio sul travaglio, sulla mamy che affronta questa prova cruciale destinata a cambiare la sua esistenza, coinvolgendo il papà che armeggia con olio e massaggi sulla schiena ad ogni contrazione, e coccola e abbraccia.

Ogni tanto ci scappa un caffè per l’ostetrica, specie durante la notte! 😉

Poi arriva finalmente il tanto atteso “sento spingere”, e allora ci si prepara proprio tutti all’accoglienza, nel rispetto dei tempi necessari a mamma e bimbo per giungere al distacco, preludio all’esplosione di gioia somigliante ad una scarica potente di energia che colpisce ogni cellula del corpo, invade la mente e la annebbia nella felicità…

Il neonato è lì, sulla pancia e tra le braccia della mamma, coccolata a sua volta da papà, in un tempo sospeso di emozioni che annichiliscono, poi il piccino cerca il seno, succhia con vigore, si appaga e rasserena: non gli è stato sottratto nulla, tutto resta, solamente in un’altra forma.

La vita prosegue: chi armeggia con le foto, chi ha bisogno di silenzio assoluto, chi sente l’impellenza di dirlo al mondo con tutti i mezzi tecnologici a disposizione, chi chiama i fratellini a vedere e toccare il miracolo di un cucciolo roseo appiccicato alla pancia della mamma e riscaldato dal suo tepore: ciascuno può trovare il proprio personale modo di vivere questo momento, in libertà.

Con calma si prepara una vaschetta di acqua calda, e i neogenitori si cimentano con l’immersione del piccolo, giocando e contemplandolo per un pò, fino a quando si rilassa, poi lo si veste insieme e nanna tra le braccia, nel lettone. Mamma ha una fame vorace, e le si prepara un buon pasto energetico.

Nel frattempo, l’ostetrica sbriga varie faccende (tante!) tenendo d’occhio la situazione; dopo qualche ora, controlla che tutto sia tranquillo e se ne va, per tornare a visitare la mamy e il neonato nei giorni seguenti, e fino a un mese dal parto. Semplice, no?… 🙂

Neonato e neonati

“Il saggio che vuole cambiare il mondo deve guardare verso il neonato. La vera civiltà inizierà il giorno in cui il benessere di un neonato prevarrà su ogni altra considerazione” (W. Reich)

Osservare un cucciolo umano appena uscito dal grembo materno trasmette qualcosa di indefinibile, perchè oltre alla meraviglia che cattura lo sguardo e la mente, entrano in gioco emozioni profonde, domande che affiorano sulla natura di questo esserino dalle forme perfette, ma privo dell’esperienza di vita che invece l’osservatore ha stipato nel suo bagaglio esistenziale.  Gli occhioni aperti sul mondo parrebbero sollecitare sentimenti di protezione, rispetto e cura amorevole, e null’altro.

Eppure questa visione del neonato, che per molti (non per tutti!) sembra scontata ai nostri giorni, si impone solamente alla fine del Seicento, poichè “fino a quel periodo l’nfanzia non veniva considerata un’età positiva, dotata di valore proprio. L’alto tasso di mortalità infantile spingeva alla prudenza, e a considerare i bambini come esseri precari. Per di più l’infanzia non presentava alcun interesse specifico: non era altro che il passaggio obbligato verso quel momento razionale in cui l’uomo si rivelava dotato di pensiero. Fu con Jean-Jacques Rousseau che la considerazione per l’infanzia mutò radicalmente: essa non era più un periodo della vita privo di valore, ma andava valutata in quanto tale, dotata di una propria finalità. Per Rousseau, l’infanzia andava rispettata per quello che era , non negata come si tendeva a fare nei secoli addietro” (*).

Queste idee daranno vita a un movimento che a fine Ottocento prenderà piede e di cui raccogliamo oggi l’eredità, pur procedendo con molta lentezza, dal momento che sollecita attenzione nei confronti del bambino fin dalla sua nascita.

Rousseau, ad esempio, condanna l’uso imperante di costringerlo in fasce, che aveva radici remotissime ed è perdurato fino al XX secolo, restando ancora attuale in alcune aree del pianeta. Antiche statuine risalenti fino al sesto secolo a.C. e conservate al Museo Archeologico di Capua raffigurano la divinità italica dell’aurora e delle nascite Mater Matuta, che tiene in braccio neonati in fasce. Nel Santuario di Vulci, in Etruria, sono state rinvenute statuine di terracotta di neonati avvolti da bende a spirale e con il capo coperto, così come nel Museo Archeologico di Atene una statuetta rappresenta un neonato avvolto strettamente in un lungo nastro, e monete romane mostrano piccoli fasciati tenuti in braccio dalla Dea protettrice del parto, Giunone Lucina.

La fasciatura aveva molteplici scopi: consentiva di “plasmare” lo sviluppo fisico del piccolo, tenerlo al caldo e facilitarne la manipolazione e il trasporto.

Plinio, nella sua “Storia Naturale” scritta nel secondo secolo d.C., descrive così la condizione neonatale:

“Appena uscito dal seno della madre e appena in grado di muoversi e di stendere le membra, il bambino viene imprigionato in nuovi legami. Lo infagottano nelle fasce, lo coricano con la testa immobilizzata, con le gambe allungate, con le braccia pendenti lungo il corpo; lo avvoltolano in pannolini e in bende di ogni genere, che non gli consentono di mutar posizione. Felice lui se non lo hanno stretto al punto da soffocarlo, se hanno avuto la precauzione di coricarlo su un fianco perchè il liquido che deve rovesciare dalla bocca possa cadere spontaneamente!”…

Rousseau, nel 1762 propone invece di mutare abitudini e di abbandonare la fasciatura:

“Il neonato ha bisogno di distendere e muovere le membra, per liberarle dal torpore in cui sono restate per tanto tempo. Se ne impedisce il movimento, e persino la testa viene imprigionata da cuffie, quasi si avesse paura di vedere in lui il minimo segno di vita. Così, in un corpo che tende a svilupparsi vengono totalmente ostacolati i liberi movimenti che l’impulso vitale delle sue parti interne richiede. Il bambino compie senza posa inutili sforzi che esauriscono le sue energie e ne ritardano lo sviluppo. Era meno stretto, meno impacciato e meno compresso nel seno materno che non nelle fasce”

Molta strada è stata percorsa, ma ancora tanta, tantissima ne resta da battere…

Come trattiamo i neonati, nelle nostre società ipertecnologiche?  Mica tanto bene: li separiamo troppo spesso dalle madri subito dopo il parto, li invadiamo di luci e suoni, con manipolazioni rudi e interventi sanitari di dubbia utilità, e soprattutto lasciamo sole le neomamme, i padri, il nuovo e delicato nucleo famigliare alle prese con la solitudine e lo smarrimento.

Forse tornare a “fasciare” i bebè, ma anche le donne, con attenzioni rispettose e affettuose, sarebbe l’intervento sanitario e sociale migliore, quello che, come suggerisce la bella riflessione di apertura, davvero produrrebbe i risultati di salute e di evoluzione della civiltà più efficaci nel breve, medio e lungo termine…

(*) – da “Nascere, e poi?” – D.Candilis-Huisman – ed.Universale Electa Gallimard 

Donne e superdonne, mamme e supermamme

“Ce la possiamo fare”, recita questo vecchio manifesto di cui ho scovato la storia, interessante (http://www.archiviocaltari.it/2011/01/27/we-can-do-it-storia-di-unimmagine/), e che si presta bene a raffigurare un certo modo di concepire la propria immagine, caratteristico di un discreto numero di donne, che già nella gestione della vita quotidiana rivendicano l’autonomia assoluta, il “ce la faccio da sola”.

Quando poi sopraggiunge una gravidanza, il pensiero resta immutabile: “ho bisogno di niente e nessuno”, fino al giro di boa della protuberanza addominale che ingombra, sbatte contro gli spigoli, fatica a infilarsi nell’ascensore… Capita che ogni mezz’ora tocca svuotare la vescica, rigirarsi nel letto diventa movimento lento e a scatti, scendere dal medesimo un gioco di puntelli di gomiti, fare la doccia cauto ingresso nel box e altrettanto guardinga uscita, con l’accappatoio che non ce la fa a contenere la rotondità. Ci si ride pure sopra con gusto, ma lì le certezze titaniche vacillano, seppur poco: inizia a farsi strada un “ce la farò, anche se a fatica”, e via.

Infine, nasce il pupo e l’adrenalina governa per qualche giorno ogni percezione della realtà, in buona compagnia con altri ormoni. Ma a un certo punto, occorre prendere atto dell’effettivo cambiamento delle carte sul tavolo, e del fatto che la vita ha subito una svolta: un neonato è impegnativo, il parto (specie se non è stato propriamente agevole) è evento che può sottrarre molte energie, i ritmi abituali restano sconvolti tanto più quanto è maggiore l’assenza di sostegno pratico ed emotivo.

Una sbirciatina a questo post è utile: https://intornoallanascita.com/2012/09/23/la-fatica-dellaccudimento

Dunque, donne, lasciatevi invadere senza timori dall’idea che qualcuno diverso dal neopadre vi stia accanto, anche solo per qualche ora ogni tanto, si tratti di amiche, nonne, zie, o altre figure, consigliandovi e  supportandovi nelle incombenze quotidiane, perchè nulla come la stanchezza fisica e/o mentale può compromettere in maniera consistente l’adattamento graduale alla nuova condizione di madre, la relazione con il cucciolo, l’intimità di coppia, lo stare bene con gli altri e nel mondo. Trovare qualche piccolo spazio per sè stesse, poi, diventa arduo, ma ce la si può fare (*).

E non dimenticate che l’ostetrica può trasmettere tanto, anche in poco tempo, fornendo un aiuto preziosissssimo per organizzarsi senza sprecare energie, e rasserenarsi nelle situazioni difficili !! 😉

(*) – https://intornoallanascita.com/2013/08/26/un-oretta-tutta-per-me/

 

 

Letture sotto l’ombrellone

Un piccolo consiglio di lettura, assai singolare, che mette insieme il racconto di vita vissuta, l’ironia, la tragicità, la bellezza e la tenacia della vita stessa, una professione difficile e speciale come quella dell’ostetrica e la meraviglia della nascita, pur se spesso circondata dal disagio. Non sempre un bambino nasce desiderato, come vorremmo che fosse, anzi! Ancora nel terzo millennio su questo pianeta buona parte degli umani vede la luce per caso, disgrazia, incidente di percorso, pura biologia, e il destino di ognuno resta segnato dal luogo e dalle condizioni socio-economiche che trova quando fa capolino dal ventre materno. Leggere “Chiamate la levatrice” (*) apre una finestra sulla realtà di quel periodo triste, in una città che si fatica persino a riconoscere in quella che attualmente si presenta ai nostri occhi.

Il librino lo ha scritto Jennifer Worth, personalità variegata, infermiera/levatrice (secondo il termine in uso all’epoca) nella Londra degli anni’50, successivi a una guerra sanguinosa e devastante, poi musicista e infine, ispirata dai ricordi, scrittrice di una trilogia di cui fa parte questo testo, l’unico al momento tradotto in italiano. E per chi volesse anche appagare il bisogno di immagini, c’è pure la versione televisiva, che nel Regno Unito ha avuto un record inaspettato di ascolti e in Italia viene trasmessa da Retequattro (**).

Dalla scheda dell’editore (Sellerio):
“La cronaca, quasi un diario, delle giornate di una levatrice nell’East Side di Londra inizi anni Cinquanta. Con lei si entra nella realtà delle Docklands, vite proletarie che sembrano immagini della plebe ottocentesca più che cittadini lavoratori del democratico Novecento. Si entra in questa desolazione impensabile con una voglia di verità quotidiana raramente riscontrabile in un libro, ma anche con una rispettosa allegria, con la sicura fiducia che quel mondo stia per finire, senza rimpianti, grazie ai radicali cambiamenti apportati dal Sistema sanitario nazionale appena nato. Come poi fu, almeno fino ad oggi.
La fresca verve di Jennifer Worth, nel trattare una materia così cruda, crea una formula ingegnosa (e di grande successo sia letterario che come fiction televisiva). L’eroismo quotidiano di interventi clinici spesso drammatici, si mescola alla denuncia sociale, alla fiamma inestinguibile dei sentimenti umani, e alla ricchissima quantità di storie e ritratti. Accanto a questi, la galleria, tenera, nobile e a tratti comica, delle giovani levatrici e delle suore del convento di Nonnatus House, da cui le ragazze dipendevano professionalmente e dove abitavano. Su questa testimonianza aleggia un lieve «effetto Dickens» con un tocco di innocente gaiezza, che però non nasconde un monito evidente a favore delle politiche sociali solidaristiche, a non smantellare, per la scarsa memoria del passato, gli strumenti che hanno permesso di diffondere dignità umana.”

Buona lettura e buone vacanze, comunque e dovunque si svolgano!! 🙂

 

(*)  – sellerio.it/it/catalogo/Chiamate-Levatrice/Worth/7354

(**) – http://www.mediaset.it/rete4/articoli/l-amore-e-la-vita-call-the-midwife-2_542.shtml

 

 

 

 

 

 

Comari, mammane e levatrici

Bellissimo estratto da un antico testo per la formazione delle ostetriche, all’epoca dette Comari (dal latino tardo commater, composto di con– e mater «madre»), che presenta caratteri di assoluta modernità, oltre a riportarci l’immagine di un “professore di chirurgia” che parrebbe piuttosto sensibile e attento ai bisogni della donna in travaglio…

“LA COMARE LEVATRICE ISTRUITA NEL SUO UFIZIO”

secondo le regole più certe e gli ammaestramenti più moderni

opera di Sebastiano Melli, professore di chirurgia, stampata in Venezia nell’anno 1738:

“NOTA ALTA ALLA COMARE”

“ Non deve la savia Donna (l’ostetrica, n.d.r.) poner in positure la gravida partoriente, se non è l’ora del partorire. Per ordinario questa si accosta quando l’acque si uniscono o formano, per parlar colla Comare, che s’intende quando vengono in parte spinte avanti colle membrane. Quando quest’acque saranno bene raccolte, il che la Comare dovrà conoscere col metter il dito nel seno pudendo, dovrà situare la sua Cliente per accogliere il figliuolo, e non si dovrà prender premura di rompere dette membrane, perché uscendo l’acque avanti il tempo, restano asciutte le vie ( da cui il tento temuto “parto asciutto”, spauracchio delle partorienti…n.d.r.), e si difficulta il partorire; può ancora la Signora Comare nell’atto che fa ispezione per sentire le acque ungersi i diti nell’oglio di mandorle fatto di fresco, o col butirro, oppure con qualche pinguedine emolliente, il che si fa per lassare, ammollire, e addolcire le vie, per le quali deve viaggiare la creatura. L’impulsione delle acque nelle seconde serrate, serve ad ampliare, e dilatare poco alla volta l’osculo uterino, come tra gli altri il Sig. Blancardi spiegò. Difatto in principio alla grandezza di una nocciuola si ritrova; e quanto più gli sforzi sempre crescono, tanto e più spinte, e respinte le seconde con l’acque, premono all’orifizio, e l’ampliano un poco alla volta; cessando gli sforzi, l’acque recedono dal luogo che avevano imboccato, e restano flaccidette le membrane. Ritornando nuovi sforzi, ritornano di bel nuovo le acque ad imboccare, le membrane ad estendersi, e così sempre più resta la cervice uterina dilatata ; à segno tale che dal sentirsi imboccate le seconde alla grandezza di una nocciuola, come sopra dissi, si passa a scoprirle della grandezza di un uovo di gallina, e non poche volte corrisponde al capo dell’infante, così che occupa tutto il passo: rotte queste, lubricate le vie, ecco l’nfante alla luce, colle seconde ancora. Avverta la Comare di non aver unghie lunghe, di levarsi anelli, o smanigli, perché quelli ornamenti non possono se non molestare le parti molli della partoriente, e impedire la speditezza di operare. Avvertirà ancora che la partoriente non sia cinta da cosa alcuna, non stretta ne’ capelli, non legata le coscie, o gambe, acciò nei premiti dal parto non patisca, e possino i fluidi liberamente scorrere. Noto di nuovo, che la Signora Comare non si deve pigliar premura di far uscire l’acque col rompere le membrane; perché tal cosa non deve essere fatta se non in occasione de’ Gemelli, come in fine di questo libro diremo.”

Il desco e la tazza da parto

 

 

 

 

Questo meraviglioso oggetto è un esemplare di desco da parto, dipinto da Pontormo su tavola e conservato agli Uffizi, a Firenze. Risale al 1526 circa, e venne realizzato in occasione della nascita di un bimbo in una famiglia della Firenze dell’epoca. Il desco era un vassoio tondo (da “disco”) in legno, dipinto su entrambi i lati, che durante il Rinascimento veniva offerto come dono cerimoniale alle donne delle famiglie più abbienti che avevano appena partorito; si trattava un oggetto della vita quotidiana delle donne dell’alta società, e con esso si serviva un primo pasto, solitamente un brodino, alla partoriente subito dopo il parto e nei giorni seguenti, fino a quando restava a letto. Vi erano spesso dipinti temi allegorici ben augurali o episodi sacri legati alla natività, e sul retro riportava generalmente elementi araldici propri della famiglia a cui era destinato. Più frequentemente vi si rappresentavano scene inerenti alla nascita di Cristo, alludendo in tal modo alla sacralità della procreazione (scopo delle nozze) nel matrimonio cristiano. Nel corso del cinquecento, questo costoso oggetto venne sostituito gradualmente da tazze in ceramica, le cosiddette tazze da puerpera, decisamente più a buon mercato, che ebbero invece vita assai più lunga.

Particolare curioso, tratto dal bel documento segnalato nel link sottostante: “nel 1940, al concorso nazionale per la ceramica d’arte, riservato a giovani ceramisti, uno dei temi in concorso era proprio un modello moderno di tazza da parto come dono alla puerpera. Questo servizio doveva comprendere la scodella per il brodo, il piatto portauovo con il portasale, il tutto congegnato con un’unica presentazione facilmente scomponibile nelle sue parti”.

Per approfondire:

DAL DESCO DA PARTO ALLA TAZZA DA PUERPERA: SIGNIFICATO E SIMBOLOGIA DI UN OGGETTO LEGATO ALLA NASCITA
Maria Pia Mannini

http://popolazioneestoria.it/article/view/180

Prima di nascere

Quando si osserva un neonato non si può non provare stupore e meraviglia, per una presenza che fino a qualche mese prima era soltanto un desiderio, un pensiero fuggevole, un progetto ancora tutto da realizzare. Soltanto “quell’uovo femminile e quello spermatozoo maschile”, proprio quelli e non altri, hanno reso concreto “quel” bambino, che sarà come nessun altro. Non stupisce quindi che il concepimento e la gravidanza abbiano da sempre suscitato interrogativi inquietanti e suggerito ipotesi fantasiose, specie quando le conoscenze anatomiche e di funzionamento del corpo umano non erano ancora sviluppate. Da un bel librino edito da Electa/Gallimard, dal titolo “Nascere, e poi?”, si possono ricavare alcune interessanti informazioni:

“Sin dalla notte dei tempi, il concepimento e la gravidanza, i due eventi naturali che inaugurano l’avvento di un nuovo essere nel teatro della vita, sono avvolti dall’ombra e dal mistero. Attorno a loro si catalizzano fantasmi, speranze e angosce. Dall’Antichità fino al Medio Evo i processi fisici della procreazione costituiscono un vero enigma per teologi, teorici e medici. In mancanza di conoscenze fisiologiche, la spiegazione si fonda sul pensiero metaforico e simbolico. Le teorie greco-romane dominano le credenze occidentali fino all’inizio del Rinascimento. Fu Aristotele a esprimere un principio fondamentale: i due sessi non svolgono lo stesso ruolo. Se il seme maschile costituisce il principio attivo, l’utero femminile (chiamato più frequentemente matrice) determina il destino di tale principio, così come la donna influisce a sua volta sullo sviluppo dell’embrione. Una volta compiuto il concepimento, il ventre si chiude completamente: un processo che desta meraviglia e inquietudine. Alcune teorie medievali tentano di cogliere il mistero della fecondazione: un tema ricorrente è quello della trasformazione della materia che viene associato alla riproduzione vegetale: il sangue mestruale viene classificato come fiore, il seme maschile come germe e l’embrione come frutto.

Nel XIII secolo, un medico afferma che le parti del corpo umano sono state create e “ordinate secondo la disposizione del mondo”: l’utero è circolare e viene rappresentato a cerchi concentrici, a immagine del mondo allora conosciuto, dunque il feto sta nell’utero come l’uomo nell’universo. Questa immagine del 1626 rimanda al corpo femminile come “giardino del genere umano” da cui sboccia il bambino, similmente a un fiore:

L’utero è, come il mondo, condizionato dall’influsso degli astri, ed ecco fiorire una serie di credenze sulla gravidanza: chi nasce prima del settimo mese non potrà sopravvivere perchè non tutti i pianeti hanno esercitato il proprio influsso. Il mese più propizio per nascere sembra il nono, il mese di Giove. In ogni caso, l’utero è considerato come un animale oscuro e selvatico, nascosto nel cupo antro del ventre, e la gravidanza è un fenomeno angosciante, che reca in sè il senso del mistero e della malattia. Durante questo periodo la donna è fragile e il bambino vulnerabile, da qui il moltiplicarsi di consigli e di prescrizioni da parte di chi circonda la donna, e anche della Chiesa.

Attività pesanti e sforzi esagerati durante la gravidanza, così come i maltrattamenti delle gestanti da parte dei mariti sono noti per provocare parti prematuri e aborti. Viene consigliato alla gestante, in trattati medici diffusi all’epoca, di riposare, e raccomandato ai familiari di avere cura di lei, attenzioni certo impensabili per le donne delle classi sociali più povere. Poichè le carenze del corpo materno si ripercuotono direttamente su quello del bambino, si sviluppa una simbologia dei gesti e del vestiario: non bisogna accavallare le gambe o le braccia per non provocare attorcigliamenti del cordone ombelicale; bisogna indossare abiti ampi e slacciati; cinture proibite, catene e collane vanno tolte e riposte in un sacchettino appeso agli abiti…I mutamenti dell’appetito e del comportamento sono segni inequivocabili della gravidanza. In tutte le classi della società medievale, le voglie di cibo di qualsiasi tipo sono un desiderio da soddisfare, credenze di cui resta traccia diffusa ancora oggi.

Anche l’immaginazione delle donne esercita un influsso potente che lascerà tracce tangibili sul bambino: il desiderio alimentare non soddisfatto si riflette direttamente sul corpo del futuro neonato, sotto forma di macchie o malformazioni. Un contagio immediato che si manifesta in entrambi i sensi: con in grembo un essere privo della ragione, la futura mamma non si trova forse in una condizione disonorevole, troppo spesso “malinconica nello spirito e piena di tristi pensieri”? Il corpo materno ha dunque un doppio ruolo nei confronti del feto che reca in grembo: è schermo, filtro che lo protegge dal freddo o dal calore eccessivo, ma al tempo stesso è elemento conduttore capace di trasmettergli sensazioni diverse, alcune delle quali condizioneranno pesantemente il suo avvenire. Nei manoscritti medievali l’immagine del nascituro nel ventre materno è quella di un bambino fatto e finito, non di un embrione e poi feto, e tale concezione sopravviverà fino al Seicento”.

Che cosa resta di questo immaginario? Molto direi, anzi moltissimo, soprattutto nelle società tradizionali. L’Occidente si è lasciato tanto alle spalle, ma in compenso la scienza ha confermato le intuizioni legate, ad esempio, al riflesso degli influssi e delle esperienze negative sul benessere del feto prima e neonato poi, affermando la centralità della salute femminile, della cura della gravidanza, del parto e dell’accoglienza al nuovo nato nella promozione della salute globale presente e futura dell’individuo che viene generato. Non è poco, ma certo moltissimo resta da fare per garantire a tutto il genere umano quell’attenzione verso la sua integrità psichica e fisica che è premessa indispensabile per il benessere delle generazioni attuali e a venire. Per questo è fondamentale partecipare in maniera attiva alla costruzione della propria, unica e personale esperienza di maternità: informazione, contatti con più operatori e strutture, scelte ragionate sono strumenti di costruzione del benessere per sè e per il bambino che verrà. Una bella differenza, quella tra affidare la propria sorte interamente ad altri e decidere in prima persona…

Per ulteriori approfondimenti:

https://intornoallanascita.com/2011/11/03/la-gravidanza-ecologica-3/

https://intornoallanascita.com/2012/02/06/esami-in-gravidanza-il-protocollo-ministeriale/

https://intornoallanascita.com/2013/05/28/lassistenza-in-gravidanza-e-durante-il-parto-chi-e-come/

Il metodo mamma canguro

Il metodo mamma canguro (MMC), che la donna sta applicando nella bella foto d’archivio del National Geographic, è una procedura di cura del neonato prematuro (prima delle 37 settimane di gravidanza) e di basso peso alla nascita (meno di 2500 gr), che si basa sul mantenimento del contatto continuo pelle-pelle tra madre, padre o altro adulto di riferimento e piccolo, con il minor numero di interruzioni possibile e per non meno di due ore consecutive, oltre che sulle attenzioni di base come alimentazione, stimoli e protezione. Deriva il suo nome dalla similitudine con cui si realizza lo sviluppo extrauterino dei canguri neonato (e in generale tutti i marsupiali), che prima di uscire dal grembo terminano lo sviluppo aggrappati alle ghiandole mammarie disposte all’interno della borsa marsupiale (o marsupio) materna. Si può utilizzare una fascia apposita che consente un maggior comfort materno e facilita la respirazione del neonato.

Il MMC fu ideato nel 1978 da un neonatologo colombiano, Edgar Rey Sanabria, a Bogotà: in quegli anni, l’ospedale in cui operava stava vivendo una situazione critica, con limitate risorse e grande affluenza di neonati di basso peso, che andavano incontro ad alta mortalità benchè gestiti secondo le procedure assistenziali considerate necessarie e sufficienti (separazione dalla madre e sosta in incubatrice per periodi variabili). La scarsa disponibilità di incubatrici rese necessario collocare più neonati in ciascuna di esse, con conseguente aumento delle infezioni. Sanabria propose dunque di sperimentare una diversa strategia per quei neonati che avevano superato la fase critica iniziale di adattamento alla vita extra-uterina: passare ad una interazione stretta con la madre, che avrebbe prodotto sia un forte stimolo all’allattamento che la decongestione dei reparti ospedalieri in favore dello sviluppo di appositi ambulatori di monitoraggio. I risultati non tardarono a rendersi evidenti, con riduzione di mortalità e infezioni neonatali, malnutrizione, squilibri termici, apnee (sospensioni del respiro) e broncopolmoniti da aspirazione di latte, per cui il metodo venne incoraggiato e sviluppato ulteriormente: man mano che si acquisiva esperienza si sviluppavano i concetti e le caratteristiche-base per la sua applicazione pratica, specialmente l’individuazione dei pilastri fondamentali, ossia l’allattamento materno e il contatto pelle-pelle tra mamma e bebè.

Anche la posizione del neonato rispetto alla madre fu oggetto di studio, per limitare i pericoli di caduta del piccolo, così come quella materna più appropriata (verticale durante il giorno e semiseduta la notte).

Il comitato locale Unicef appoggiò e diffuse la pratica in Sud America, mentre l’OMS ne riconobbe il grande valore assistenziale con il Premio Sasakawa per la Salute. Così, una pratica nata per fronteggiare situazioni di emergenza venne poi sottoposta a ricerca scientifica, tramite cui fu possibile rilevarne i buoni risultati, statisticamente significativi.

Questa procedura consente di soddisfare efficacemente le necessità del neonato prematuro o di basso peso: mantenimento della temperatura corporea, alimentazione con latte materno, protezione dalle infezioni, stimoli di varia natura, sicurezza e coccole; la sua efficacia è pari, o anche superiore in determinate circostanze, a quella delle cure tradizionalmente intese (incubatrice, riscaldamento artificiale), se si comparano mortalità e morbilità. Riduce inoltre i tempi di ricovero ospedaliero e i costi assistenziali di questi bimbi.

E’ principalmente adatta a neonati che respirano autonomamente e non presentano condizioni di gravità, ma può essere applicabile in diverse situazioni, in base agli obiettivi che si vogliono raggiungere. Così ad esempio possono trarne vantaggio

– neonati con problemi di regolazione della temperatura corporea;

– contesti in cui non esistono alternative (Paesi in vi di sviluppo), come pratica assistenziale primaria;

– Unità di Terapia Intensiva Neonatale (TIN) come pratica umanizzante, favorente l’avvio della relazione madre-bambino, applicabile anche se il piccolo è in ventilazione assistita, quando le condizioni generali lo consentono.

Raggiunto un buon adattamento reciproco madre-neonato, accertate le competenze della madre nella gestione e del piccolo riguardo a suzione, deglutizione e respirazione, si può passare alla dimissione e al monitoraggio ambulatoriale. Questa modalità di cura, per il suo alto valore assistenziale e umano, è ora applicata in numerosi Paesi industrializzati d’Europa e del Nord America.

Comunque, il contatto madre (padre) bambino, fin dalla nascita, rappresenta un elemento di fondamentale importanza per favorire il passaggio alla vita extrauterina, così come il latte di mamma è l’alimento adatto al cucciolo umano: non dimentichiamo che è ciò che Madre Natura ha previsto per tutti i mammiferi…

Per approfondire, la guida curata dall’OMS, anche nella versione in francese e spagnolo :

http://www.who.int/reproductivehealth/publications/maternal_perinatal_health/9241590351/en/index.html

Parlare di sesso con i bambini


“Il mio bambino non ha mai chiesto nulla sul sesso”…”Mia figlia è ancora troppo piccola“…”Ha altro a cui pensare”…”Non è ancora ora”…”Ho paura di incoraggiare atteggiamenti precoci”…”Non so da dove incominciare”…”Mi mette in imbarazzo“…”Ci penserà la scuola“…”Ooh, ma tra amici ne parlano!I giovani ormai sanno tutto!”…”Quando sarà adolescente, magari…” Quante volte ho ascoltato queste frasi, e tante altre, alcune molto rassicuranti per l’adulto che le pronunciava, altre espressione di un disagio che affonda radici nell’infanzia, quando certi argomenti nemmeno si potevano sfiorare senza generare silenzi, reazioni sorprese o scomposte, chiusura. Difficile, difficilissimo parlare di sesso con i bambini, con gli adolescenti poi…e bisogna vedere se a 15 anni hanno ancora voglia di parlarne con mà e pà, perchè se prima di allora non si è mai toccata la questione, figurati dopo!! Un documento (*) approvato recentemente dall’organizzazione Mondiale della Sanità, stilato da un gruppo internazionale di esperti in ambito educativo e diffuso in Europa, finalizzato a diffondere standard comuni riguardo alla promozione della salute sessuale, sta facendo molto discutere per alcuni contenuti piuttosto espliciti (sui quali ognuno è ovviamente libero di esprimere le sue perplessità). Comunque la si consideri, la faccenda scotta sempre, va detto: ma crea difficoltà soprattutto in famiglia, con i propri figli, per proseguire con la scuola, dove trovare insegnanti disposti ad affrontare in maniera aperta discorsi sulla sessualità non è affatto semplice e, perchè no, persino con operatori sanitari (medici, ginecologi, ostetriche) che teoricamente dovrebbero avere meno inibizioni… Perchè? Risposta essenziale: se si perpetua un atteggiamento di evasione, da genitori a figli, dove e quando mai si potrà pensare di mettere a disposizione di bambini e ragazzi (e adulti, eh?) una sana informazione, che rappresenti la base per scegliere consapevolmente, responsabilmente quando, con chi e come vivere le proprie esperienze sessuali, naturali e ovvie tappe dell’esistenza umana? Contare sugli scambi tra loro diventa pericoloso: vero che circolano tante informazioni, ma molto confuse e difficili da usare, quando non sono sbagliate! Intendiamoci, non è una colpa del singolo: il problema è che se una società esclude un elemento così fondamentale e complesso della vita dalla vita stessa, a partire dall’infanzia, crea le condizioni per gli abusi su donne e bambini, le gravidanze indesiderate, la sessualità violenta, le malattie a trasmissione sessuale, le distorsioni squallide che sono sotto gli occhi di tutti, bambini compresi! Il genitore medio vive nell’illusione che tutto ciò sia distante dalla vita di un piccino, invece non è così: televisione, riviste, edicole che espongono qualunque cosa, pannelli pubblicitari, discorsi stessi degli adulti condotti con noncuranza, magari in apparente “codice” e pieni di sottintesi, tanto i bimbi non capiscono. NON CAPISCONOOO!? Accidenti se capiscono, e imparano così in fretta che se solo intuiscono il disagio di mamma o papà, si guardano bene dal porre domande: l’ultima cosa che un bambino desidera è vedere sul viso delle figure essenziali della sua vita espressioni poco rilassate… Le domande, SE avranno l’opportunità, le faranno a qualcun altro. Eccone alcune, rivolte a me durante gli incontri con bambini di seconda elementare: “io so che mamma e papà fanno uno scambio, che c’è un passaggio da mamma a papà, ma come succede questo?”, “quanto tempo passa da quando papà da il seme alla mamma a quando comincia a formarsi il bambino?”, “d’accordo, ci vuole un seme del papà e un uovo della mamma, ma tutte le volte che c’è un passaggio nasce un bambino?”, “il bambino nella pancia dorme, ascolta, mangia?”, “come fa a respirare?”, “perchè muoiono alcuni bambini nella pancia?”, “se la mamma sta male, sta male anche il bambino?”, “come fa a uscire dalla pancia?”, “è vero che certe donne e certi uomini non possono avere bambini?”, “se si rompe il sacchetto dove c’è il bambino, come fanno a nascerne altri?”…Questi piccini han formulato domande così complesse a soli 7 anni, perchè nella loro mente c’è già moltissimo, assorbito nel tempo dall’ambiente circostante!! E se non trovano nessuno che risponda? Ancora? Il genitore di un tredicenne pensa mediamente che la propria creatura abbia sì curiosità, ma superficiali, non ancora proprio così avanzate…Ecco le domande di tredicenni di scuole medie periferiche con cui porto avanti da anni un progetto di educazione alla sessualità: “da dove viene il bisogno di avere rapporti tra due donne?”, “vorrei sapere come si fa a passare da un organo genitale maschile a uno femminile, cioè il nome dell’operazione”, “perchè il pene diventa duro quando si guarda una donna nuda?”, “perchè quando si ha un rapporto sessuale lo sperma esce solo dopo vari movimenti?”, “se si hanno rapporti durante le mestruazioni si resta incinte?”, “se durante il rapporto il maschio urina che succede?”, “cos’è la circoncisione e perchè si fa?”, “che cos’è l’eiaculazione precoce?”, “a che età si può prendere il viagra?”, “il clitoride può diventare duro?”, “il petting di solito si fa prima del rapporto, ma cosa si deve fare esattamente?”, “vorrei approfondire l’argomento sulle precauzioni da prendere”, “come fanno a fare sesso gay e lesbiche?”, “com’è la posizione a coccinella?” (a questa non ho saputo rispondere, lo confesso!)… Credo che se leggessi a un gruppo di genitori di tredicenni tutto ciò dovrei prevedere almeno qualche malore in sala (e non ho riportato proprio tuuutto!). Potrei andare avanti per alcune pagine, ma sono tutte domande piene di sanissima curiosità, senza malizia, che servono a capire i misteri della vita e a collocare la sessualità in maniera normale nella propria esperienza, ricavando strumenti per gestirla con resposabilità e gratificazione…ma se nessuno risponde, che fine fanno? Si cercano altrove, le risposte, e mica sempre sono quelle giuste. Allora, come se ne esce? Pensando che fin dalla nascita un essere umano è sessuato: è maschio o femmina, il suo corpo è fatto di tante parti, i genitali necessitano da subito di essere toccati per tenerli puliti, e a un certo punto il pupo scopre di averceli. Come fino a quel momento ha esplorato il resto del suo corpicino, così fa con la “patatina” (la vulva!) e il “pisellino” (il pene!). E quando inizia a parlare, chiede: come funziona questo, e quello, e da dove sono venuto, e poi come è stato possibile, ed ecco che l’adulto incomincia a tremare. Quando ho seguito un bellissimo corso di formazione sessuologica, il docente ha pronunciato una frase che mi è rimasta stampata nella mente: “parlare di sesso con i bambini, o con chiunque, deve essere percepito come qualcosa di semplice, come descrivere la ricetta della torta di mele“. Proprio così: il pene o la vulva sono pezzi di un insieme al pari di tutti gli altri, delicati e intimi però, da trattare con cura, tenere puliti, imparare a lavare da soli. E poi sono davvero singolari, perchè servono per “fabbricare” altri bambini. E qualunque domanda può rappresentare il punto di partenza per spiegare cose nuove, educare alla diversità e al rispetto, stimolare il desiderio di saperne di più. I bambini vogliono risposte veloci e comprensibili, però: non dilungarsi è importante, perchè se chiedono “da dove sono uscito” la risposta deve essere stringata (“dalla vagina della mamma, un canalino speciale che sta tra le gambe””, ad esempio). Può essere che gli basti così, al momento, come può darsi che vogliano approfondire. Prepararsi non è un male: qualche bel libro consultato in biblioteca e poi insieme a loro aiuta tanto, e la maggior parte dei genitori scova qualcosa che non sapeva (non si finisce MAI di imparare)!! A questo link si possono trovare tanti bei libri: –  http://www.uppa.it/rubriche/cultura/libri-e-lettura/educazione-sessuale-bibliografia-ragionata Molti studi dimostrano che un dialogo aperto e sereno tra genitori e figli ritarda l’inizio delle esperienze sessuali, produce capacità di riflessione e rende i giovani più consapevoli di ciò che vogliono fare, del tipo di partner e di relazione che desiderano, delle possibili conseguenze di una sessualità vissuta senza affettività e senza precauzioni. In fondo, i timori di un genitore sono legati proprio a questi elementi della faccenda… Ora, si impone preparare gli ingredienti per una bella torta di mele, e parlando ad alta voce concentrarsi sulla descrizione dei passaggi, dalla farina all’estrazione dal forno, cioè fare esercizio per passare a qualche altro argomento… ; ))

(*)  –  http://www.bzga-whocc.de/?uid=20c71afcb419f260c6afd10b684768f5&id=home