“Il saggio che vuole cambiare il mondo deve guardare verso il neonato. La vera civiltà inizierà il giorno in cui il benessere di un neonato prevarrà su ogni altra considerazione” (W. Reich)
Osservare un cucciolo umano appena uscito dal grembo materno trasmette qualcosa di indefinibile, perchè oltre alla meraviglia che cattura lo sguardo e la mente, entrano in gioco emozioni profonde, domande che affiorano sulla natura di questo esserino dalle forme perfette, ma privo dell’esperienza di vita che invece l’osservatore ha stipato nel suo bagaglio esistenziale. Gli occhioni aperti sul mondo parrebbero sollecitare sentimenti di protezione, rispetto e cura amorevole, e null’altro.
Eppure questa visione del neonato, che per molti (non per tutti!) sembra scontata ai nostri giorni, si impone solamente alla fine del Seicento, poichè “fino a quel periodo l’nfanzia non veniva considerata un’età positiva, dotata di valore proprio. L’alto tasso di mortalità infantile spingeva alla prudenza, e a considerare i bambini come esseri precari. Per di più l’infanzia non presentava alcun interesse specifico: non era altro che il passaggio obbligato verso quel momento razionale in cui l’uomo si rivelava dotato di pensiero. Fu con Jean-Jacques Rousseau che la considerazione per l’infanzia mutò radicalmente: essa non era più un periodo della vita privo di valore, ma andava valutata in quanto tale, dotata di una propria finalità. Per Rousseau, l’infanzia andava rispettata per quello che era , non negata come si tendeva a fare nei secoli addietro” (*).
Queste idee daranno vita a un movimento che a fine Ottocento prenderà piede e di cui raccogliamo oggi l’eredità, pur procedendo con molta lentezza, dal momento che sollecita attenzione nei confronti del bambino fin dalla sua nascita.
Rousseau, ad esempio, condanna l’uso imperante di costringerlo in fasce, che aveva radici remotissime ed è perdurato fino al XX secolo, restando ancora attuale in alcune aree del pianeta. Antiche statuine risalenti fino al sesto secolo a.C. e conservate al Museo Archeologico di Capua raffigurano la divinità italica dell’aurora e delle nascite Mater Matuta, che tiene in braccio neonati in fasce. Nel Santuario di Vulci, in Etruria, sono state rinvenute statuine di terracotta di neonati avvolti da bende a spirale e con il capo coperto, così come nel Museo Archeologico di Atene una statuetta rappresenta un neonato avvolto strettamente in un lungo nastro, e monete romane mostrano piccoli fasciati tenuti in braccio dalla Dea protettrice del parto, Giunone Lucina.
La fasciatura aveva molteplici scopi: consentiva di “plasmare” lo sviluppo fisico del piccolo, tenerlo al caldo e facilitarne la manipolazione e il trasporto.
Plinio, nella sua “Storia Naturale” scritta nel secondo secolo d.C., descrive così la condizione neonatale:
“Appena uscito dal seno della madre e appena in grado di muoversi e di stendere le membra, il bambino viene imprigionato in nuovi legami. Lo infagottano nelle fasce, lo coricano con la testa immobilizzata, con le gambe allungate, con le braccia pendenti lungo il corpo; lo avvoltolano in pannolini e in bende di ogni genere, che non gli consentono di mutar posizione. Felice lui se non lo hanno stretto al punto da soffocarlo, se hanno avuto la precauzione di coricarlo su un fianco perchè il liquido che deve rovesciare dalla bocca possa cadere spontaneamente!”…
Rousseau, nel 1762 propone invece di mutare abitudini e di abbandonare la fasciatura:
“Il neonato ha bisogno di distendere e muovere le membra, per liberarle dal torpore in cui sono restate per tanto tempo. Se ne impedisce il movimento, e persino la testa viene imprigionata da cuffie, quasi si avesse paura di vedere in lui il minimo segno di vita. Così, in un corpo che tende a svilupparsi vengono totalmente ostacolati i liberi movimenti che l’impulso vitale delle sue parti interne richiede. Il bambino compie senza posa inutili sforzi che esauriscono le sue energie e ne ritardano lo sviluppo. Era meno stretto, meno impacciato e meno compresso nel seno materno che non nelle fasce”
Molta strada è stata percorsa, ma ancora tanta, tantissima ne resta da battere…
Come trattiamo i neonati, nelle nostre società ipertecnologiche? Mica tanto bene: li separiamo troppo spesso dalle madri subito dopo il parto, li invadiamo di luci e suoni, con manipolazioni rudi e interventi sanitari di dubbia utilità, e soprattutto lasciamo sole le neomamme, i padri, il nuovo e delicato nucleo famigliare alle prese con la solitudine e lo smarrimento.
Forse tornare a “fasciare” i bebè, ma anche le donne, con attenzioni rispettose e affettuose, sarebbe l’intervento sanitario e sociale migliore, quello che, come suggerisce la bella riflessione di apertura, davvero produrrebbe i risultati di salute e di evoluzione della civiltà più efficaci nel breve, medio e lungo termine…
(*) – da “Nascere, e poi?” – D.Candilis-Huisman – ed.Universale Electa Gallimard