Lingua madre, si chiama. “Madre”, così dolce e intimo, così carico di significati simbolici. Nella lingua stanno parole, frasi, concetti, emozioni che riportano alla madre. Emozioni: da ciascuna nasce la parola, non potrebbe essere altrimenti per il bambino che impara a comunicare. Da quel momento e per la vita, la lingua appresa nell’infanzia circonda i pensieri e gli dà forma. Ma cosa succede se le circostanze dell’esistenza sradicano dal rassicurante terreno della propria lingua madre, catapultando in una dimensione estranea, incomprensibile, dove scompaiono quei riferimenti certi della comunicazione che sono le parole, combinate a comporre suoni familiari che scandiscono la consuetudine e il fluire del tempo?
Succede che la quotidianità dell’esistenza viene stravolta, consegnata all’inquietudine di giorni sempre diversi, in cui far tornare i conti della propria identità spezzata e confusa con quelli del bisogno di sopravvivere in ogni modo, ricostruendo dentro di sè a poco a poco e con fatica piccole certezze, frammenti della vita lasciata alle spalle sbalzati in dimensioni estranee, dove nulla sembra essere più decifrabile, eppure diventa obbligatorio ripensarli, ricrearli, rimetterli insieme… Se poi a vivere tutto questo sono le donne, allora anche l’esperienza di un disagio così grande diventa “di genere”: si può individuare un malessere specifico al maschile o al femminile, connesso con lo sradicamento geografico e culturale? Certamente si, e chiunque può osservarlo nelle sue manifestazioni semplicemente guardandosi intorno, cercando di decifrare la realtà che cambia sotto gli occhi ben più rapidamente di quanto si possa pensare.
Così, nella mia vita di ostetrica è successo che siano entrate e uscite tante di queste donne: ciascuna portava con sè la sua vita, le sue speranze e anche le disillusioni, le sofferenze e la gioia, a volte l’apparente indifferenza verso il mondo, ma tutte avevano per denominatore comune il bisogno smisurato di trovare ascolto e condivisione. Per una donna straniera, già provata dal disagio di trovarsi in un contesto sociale, culturale e linguistico sconosciuto, l’ingresso in una struttura sanitaria con regole, divieti, routine e pratiche cliniche così estranee alla sua esperienza rappresenta una fonte di malessere supplementare. Tante sono rimaste nella mia mente, e ancora mi chiedo che fine avranno fatto, cosa gli avrà riservato lo scorrere del tempo…
Cela, albanese di trent’anni, bella e dolce, parla un italiano corretto ed è accompagnata da un distinto signore italiano molto più vecchio di lei: ha una perdita di sangue molesta, continua, un malessere fisico indecifrabile; sta cercando di avere un figlio con quest’uomo affettuoso che la accarezza e le tiene la mano durante la visita. Le viene diagnosticato un tumore uterino in fase avanzata; mi fermo a parlare con lei, siamo sole. Dopo una iniziale ritrosia mi racconta di sè: basso livello di istruzione, violentata a 15 anni nel suo paese di origine, rimane incinta e viene costretta ad abortire in condizioni igieniche disastrose; segue un’infezione gravissima da cui esce viva per miracolo: le resta una cicatrice devastante sull’addome, uno sfregio tremendo sul corpo esile, ma è viva. Giunge in Italia con la promessa di un lavoro, finisce a prostituirsi, un aborto dopo l’altro, non si ricorda nemmeno quanti, quindici o venti, tutti clandestini, i clienti non vogliono il preservativo ma gli sfruttatori reclamano il denaro. La vita scandita dalle violenze, fino a quando il distinto signore italiano la toglie dalla strada…Ora è qui: una pena infinita, le accarezzo la mano e resto in silenzio, lei si lascia andare alle lacrime e parla sottovoce, nella sua lingua…
Amira, tunisina, vent’anni, esilissima e vestita con abiti occidentali, diploma di scuola superiore conseguito nel suo paese, si esprime in buon italiano; arriva all’inizio del travaglio accompagnata dal marito, anch’egli tunisino e di poco più vecchio. Sorridono tanto, sono teneri, sempre in contatto fisico tra loro ma tesi, spaventati. Il travaglio procede con grande lentezza, è notte e la stanchezza si fa sentire. Le contrazioni aumentano di intensità, Amira chiede aiuto, si aggrappa a me con forza quasi aggressiva, teme il taglio cesareo perchè proviene da una cultura in cui una donna deve dare dimostrazione della sua capacità di far nascere un figlio per le vie naturali. La rassicuro sul fatto che tutto procede bene e la invito a lasciarsi andare, la metto a suo agio come posso, con un the caldo, un massaggio sulla schiena…Ad un certo punto inizia a invocare nella sua lingua, ripetendo come un mantra le stesse parole. Chiedo al marito di tradurre: si sta rivolgendo alla madre lontana, chiedendole di aiutarla. Come può farlo se non nella sua lingua madre? Finalmente si rilassa e il travaglio accelera, fino a quando il piccolo fa capolino e apre i suoi occhi sul mondo: la gioia è in arabo, e non potrebbe essere altrimenti…
Tuttavia, la prima volta poteva essere casuale, ma la seconda comincio a pormi una domanda: possibile che la lingua d’origine irrompa in maniera spontanea quando l’emotività diventa intensa e l’istinto prende il sopravvento sulla parte razionale del nostro essere? Decido di prestare maggior attenzione, ed ecco che altre storie ed altre lingue si susseguono, restando impresse nella mia mente come frammenti indelebili del mio percorso umano e professionale.
Yuna, cinese di 19 anni, giunta al seguito di un imprenditore italiano sessantacinquenne che ha impiantato una filiale in Cina: è timidissima, parla italiano con discreta padronanza, ma a tenere le redini della conversazione è lui, rustico, verboso e caciarone. Dal momento del ricovero in poi, alle domande risponde istintivamente, senza nemmeno lasciare alla ragazza il tempo per dire la sua. Cerco un momento di intimità con lei, allontanando il compagno con uno stratagemma. Mi racconta brevemente la sua storia: ha iniziato a lavorare nell’azienda in Cina, come tuttofare, insieme a numerose altre giovani coetanee, poi la richiesta di trasferirsi in Italia, ed ora un figlio in arrivo. Torna il quasi-padre: non gli ho chiesto alcunchè, ma sente di dovermi rendere partecipe delle sue vicende personali. Si è separato molti anni prima dalla moglie italiana, da cui ha avuto due figli ormai più che adulti. Con la fierezza di un gallo cedrone mi sottolinea che lui, di ragazze cinesi, ne ha portate due, in Italia: “sa, sono talmente ubbidienti, si accontentano, accettano qualunque cosa e tacciono…potrei portarmene quante voglio, d’altronde arrivano dalla miseria, qui fanno vita da regine!”. Due, chiedo, dove stanno? Che domanda, a casa sua, vivono tranquillamente insieme, sotto lo stesso tetto: per loro non fa problema, mica come per noi…Sanno fare tutto, e tengono pure la contabilità! Yuna continua il suo travaglio in silenzio, gli occhi parlano di malinconia e rassegnazione bilanciate almeno in parte da una rassicurante agiatezza; quando le doglie si fanno più intense, inizia a lamentarsi sommessamente con voce sottile, acuta e suoni ritmici scanditi nella sua lingua. Chiedo a lui di tradurre: sta invocando l’aiuto di sua madre. Nasce una bimba, piccina, faccino tondo e occhi allungati; mi chiedo quale sarà la sua sorte, ma pensando ai milioni di bimbe cinesi soppresse nel tempo per lasciare il posto al figlio maschio, mi conforta il fatto che almeno a lei la vita sarà concessa. Yuna l’abbraccia stretta, inizia a parlarle sottovoce nella sua lingua musicale, come se fossero all’interno di una bolla da cui lui, il “sultano”, pare escluso…
Olga è una donna che dimostra molto più dell’età anagrafica: è provata in maniera evidente dalla fatica di vivere e dalla sua storia. Si esprime in un italiano incerto ed elementare. Sradicata dalla Moldavia per tentare una vita diversa approda in Italia, dove cerca di sopravvivere da cinque anni facendo la domestica. Ha lasciato nella sua terra un marito che annega nell’alcool il suo disagio e una figlia adolescente, vista l’ultima volta un anno prima. Entrambi vivono in una stamberga alla periferia di una cittadina. Ora è in travaglio, appesantita da una gravidanza imprevista. Arriva accompagnata da un’amica, e poco dopo il ricovero mi dice che il bambino non lo può tenere, quindi andrà in adozione. Provo a sondare la sua decisione e a capire se ha pensato a tutte le opzioni possibili, ma è determinata: i datori di lavoro la riaccoglieranno dopo il parto, ma da sola, e in ogni caso non può permettersi di accudire e mantenere un altro figlio, dal momento che la famiglia rimasta in Moldavia dipende in gran parte dalle piccole somme di denaro che lei riesce a racimolare e spedire periodicamente. Non lascia trasparire emozioni, non si lamenta e fissa con sguardo vuoto la parete davanti a sè nelle pause tra le contrazioni. Ogni tanto parliamo di piccole cose, molto elementari. Partorisce un maschio ed evita di guardarlo, ben sapendo che dovrò farlo portare via al più presto. Pronuncia parole per me incomprensibili, nella sua lingua, con tono mesto e sottovoce ma con fermezza. Le chiedo se ha cambiato idea e le ricordo che potrà ancora farlo, ma mi risponde che no, non si può, che solo così il bambino potrà avere una vita normale e lei anche…Una vita normale? Mi soffermo a pensare a quanto può essere “normale” l’esistenza di questa donna, apparentemente così distaccata da quanto sta vivendo. Cerco di restarle accanto e di sostenerla nella sua fatica, che certamente è grande. Compilo il certificato di assistenza al parto con la dicitura “madre che non intende essere nominata”. Mi coglie una curiosità: quanti sono i bambini partoriti in anonimato in Italia? Cosa ci dicono le percentuali in proposito? Cerco in rete: il fenomeno è in aumento, e per il 70% riguarda donne straniere. Una nicchia di realtà del nostro Paese che non fa notizia, eppure rappresenta una fetta di sofferenza ed emarginazione che ciascuna delle donne interessate porta su di sè a vita, senza che nessuno ne sia consapevole…
Ela arriva in ospedale verso mezzanotte, in autobus perchè il marito lavora in un cantiere e sarà occupato fino all’alba. E’ polacca, un viso bello e dolce, modi fini e parla un buon italiano. Il travaglio è appena agli inizi ma promette di procedere con rapidità. La notte è tranquilla, le resto vicina e chiedo di poter chiamare il marito perchè possa partecipare all’evento. Mi risponde che non è possibile, ha iniziato a lavorare da poco al cantiere e non può chiedere di assentarsi. Mi racconta la sua storia: è giunta in Italia quattro anni prima insieme a lui; entrambi hanno una laurea, lei in letteratura, lui in ingegneria, ma qui non servono e ci si è dovuti adattare. Lei ha trovato lavoro come domestica, lui salta da un’occupazione all’altra, sempre precarie, senza alcuna tutela e pagate in nero. Mi sale la rabbia e penso che no, non si può pensare di negare ad un uomo il diritto di stare accanto alla sua compagna quando sta per nascergli un figlio, così le chiedo di chiamarlo (hanno un telefono!) e di provare a chiedere se qualcuno lo può portare in ospedale. Il capocantiere storce il naso, ma è un padre…Dopo circa un’ora lo vediamo arrivare, il volto sfatto e le mani rovinate dal cemento, ma felice e commosso. Mi commuovo anch’io e vado in disparte con gli occhi che si inumidiscono, pensando a quanto ingiusta è la vita. All’alba nasce una splendida bimba: entrambi scoppiano in un pianto di felicità e malinconia, dispiaciuti per la lontananza dalle famiglie, parlano fitto tra loro in polacco e si rivolgono alla cucciola con parole dolci e cadenzate. Ela canta una ninnananna nella sua lingua madre. Quando viene dimessa, passa a ringraziarmi con gli occhioni bagnati, dicendomi che in questa circostanza si sono sentiti meno soli e tanto accolti; ci abbracciamo e auguro a tutti una vita di serenità, nonostante tutto…
Lingua madre e lingua acquisita, dunque, occupano un posto ben preciso nella geografia mentale delle persone, questo mi sembra di aver capito; sono le circostanze della vita a determinare il ricorso all’una o all’altra, in maniera istintiva. In ogni caso la conoscenza di un’altra lingua rappresenta una ricchezza. I figli degli immigrati non di rado possiedono la padronanza di almeno una, a volte anche due lingue, oltre a quella italiana: la scienza ci dice che quando i bambini ne apprendono diverse in contemporanea sviluppano un’area del cervello che altrimenti rimarrebbe silente; ciò significa intelligenza più vivace e creativa…Il futuro gli appartiene, senza dubbio.
Sono nata a Torino, da padre siciliano e madre emiliana. Entrambi avevano portato in questa città un bagaglio pieno di speranze, vicende legate alla guerra e sradicamento dalla famiglia di origine, reso obbligatorio dal bisogno di un lavoro. Mio padre, classe 1910, collezionò una doppia mortificazione: da parte della sua famiglia, poichè nella decisione di sposare una donna “del continente” era implicito l’oltraggio alle donne locali, e in seguito per via delle sue origini “terrone”, in un Piemonte bisognoso di braccia ma ancorato ad uno spietato senso della territorialità e dell’appartenenza. Sentirsi apostrofare con termini come “napuli” e “terùn” era frequente per lui, ma anch’io ho potuto sperimentare più volte la grazia di questa sottolineatura malevola, diretta o indiretta, anche da persone dalle quali non me lo sarei aspettato… Di quali armi dotarsi per mitigarla? L’ironia, la tenacia, la capacità guardare oltre, di rielaborare le esperienze attraverso una visione aperta del mondo e l’attribuire valore alle diversità culturali.
Il dialetto siciliano, sporadicamente inframmezzato da spezzoni di quello emiliano, ha rappresentato sempre una componente essenziale dell’atmosfera che si respirava in famiglia, mantenuto vivo soprattutto nei momenti di maggiore carica emotiva, quando riusciva comunque ad essere colorito, nella tristezza come nelle circostanze comiche. Raccontare una storia legata alla propria vita significava farlo usando il dialetto, che sembrava rappresentare una sorta di ancora, un elemento di sostegno e di rassicurante rinforzo identitario, marcando in parallelo la mia appartenenza a luoghi diversi e a nessuno in particolare. Ancora oggi non posso fare a meno di ricordare spesso e con precisione frammenti di quei suoni, quando ho voglia di sentire la presenza di chi non c’è più, mettendo volutamente nel ricordo l’allegria delle parole dialettali pronunciate in questa o quella situazione e il piacere di riascoltarle, marcandone così il valore profondo.
Per questo motivo mi è particolarmente caro Andrea Camilleri, che con la lingua ha un rapporto peculiare, ricco, coinvolgente e creativo. Nei suoi scritti riconosco molto del linguaggio ascoltato durante l’infanzia. Fu proprio leggendo una sua intervista che mi si aprì una finestra sulle situazioni vissute sia in famiglia che nell’ambito professionale, a conferma delle mie percezioni. In essa si esprimeva così: “A casa parlavamo in dialetto e in italiano. Quand’è che si parlava in dialetto e quando in italiano? Questa è la domanda che mi sono posto e su questo ho cominciato a scrivere. Supportato poi da Pirandello; un giorno scoprii un suo scritto meraviglioso della fine dell’Ottocento, che dice: «Di una data cosa, il dialetto ne esprime il sentimento, della medesima cosa la lingua ne esprime il concetto».
Deve essere così evidentemente, per certi versi, anche riguardo al rapporto tra lingua madre e lingua acquisita, per tutti coloro che lasciano dietro di sè la propria storia per iniziarne una nuova, ma senza fortunatamente recidere del tutto il legame con le radici, che resta ancorato alle parole ma modulato dalle emozioni…
p.s. I nomi citati sono di fantasia
Leggi anche:
http://www.uppa.it/rubriche/nascere/gravidanza-e-parto/mamme-di-tutti-i-colori
Bello, bellissimo. Mi sono emozionata piú volte leggendo questa carrellata di storie. Che lavoro bellissimo fai Franca!
GRAZIEEEEE!!! sì, è proprio un bel lavoro… 😉