Tra le tante preoccupazioni genitoriali, dopo la nascita di un bimbo, c’è quella del luogo in cui dovrebbe dormire: può sembrare banale, ma non lo è…Da un giorno all’altro, la coppia affronta una situazione del tutto nuova, dove deve trovare posto, fisicamente parlando, un esserino dipendente in maniera totale, che si alimenta ad intervalli ravvicinati nelle 24 ore (anche di notte, ebbene si!), che sveglia tutti nel cuore del sonno profondo e impiegherà molto tempo per diventare autonomo. Per alcuni il pensiero di condividere il materasso diventa fonte di disagio, perplessità riguardo all’acquisizione di presunte “cattive abitudini”, o vera e propria insofferenza. Altri invece, al contrario, si chiedono quanto potrà influire sull’ autonomia futura del bambino il fatto di dormire insieme ai genitori. Posto che ognuno decide in base alle proprie convinzioni, però ragionare serenamente sui bisogni di un neonato non è difficile e può chiarire molti dubbi: dopo una relazione fisica strettissima durata nove mesi, il piccolo ha bisogno di contatto al pari del cibo. Il nutrimento gli permette di aumentare di peso, ma per maturare con completezza il suo cervello, quindi la sua intelligenza, la sua emotività, le sue capacità motorie e quant’altro, ha una necessità vitale di relazione intima, corporea, rassicurante. Per il bambino prematuro, poi, questa esigenza è ancora più marcata…
Il sonno del bambino è stato oggetto di numerosi studi, e al momento James McKenna, antropologo e neurologo, è lo scienziato che, oltre ad aver approfondito l’indagine sulla SIDS (sindrome della morte improvvisa del lattante), ha apportato i maggiori contributi alla comprensione dei suoi meccanismi. Partendo dal presupposto che anche il sonno è stato oggetto, nella specie umana, di processi evolutivi, ha rilevato che nel neonato, in particolare, sono prevalenti le fasi di sonno attivo (REM), fondamentale per un corretto sviluppo neurologico. Inoltre, il suo organismo è biologicamente programmato per dormire in un certo modo, funzionale alle sue esigenze di crescita, secondo ritmi che non rispondono alle aspettative culturali del contesto attuale, in cui si vorrebbe che essi coincidessero con quelli dell’adulto. I cuccioli umani nascono inoltre neurologicamente molto più immaturi rispetto a quelli di altri primati, con una massa cerebrale che corrisponde a circa il 25% di quella definitiva. I piccoli di scimpanzè, ad esempio, presentano alla nascita un cervello con massa quasi doppia; ciononostante, le madri li allattano e li tengono a stretto contatto per anni. Secondo McKenna, un neonato umano dovrebbe restare almeno per altri sei mesi nell’utero materno per trovarsi alla nascita neurologicamente al pari degli altri piccoli primati, ma ciò non è possibile a causa degli eventi evolutivi che hanno condotto la specie umana alla postura eretta e al restringimento dello spazio all’interno del bacino femminile.
La condivisione del sonno (o co-sleeping) fa parte quindi di un processo volto a sostenere la crescita armonica del bambino, poichè i primati sono animali che “portano” i cuccioli, li nutrono con un latte adattato nella sua composizione al bisogno di assunzione frequente di cibo durante tutto il giorno (di 24 ore!), quindi connesso con una vicinanza costante alla madre, a differenza delle specie di mammiferi che allattano i piccoli, si assentano dalla tana per cercare cibo per tempi piuttosto lunghi e vi tornano per l’allattamento successivo: il loro latte infatti presenta un’alta percentuale proteico-lipidica, maggiormente saziante.
Nelle società occidentali, il neonato viene separato dalla mamma con frequenza e per tempi prolungati, nonostante proprio da essa dipenda la loro sopravvivenza! Eppure tutti i neonati del pianeta sono uguali sul piano biologico, psicologico ed emotivo, e nulla può cambiare la loro natura. McKenna sostiene che il pianto di richiamo dei piccoli umani sia proprio associato alla percezione minacciosa della separazione dalla madre; infatti nei contesti sociali in cui essi vivono a stretto e prolungato contatto con la madre piangono assai meno. Il problema è che le aspettative adulte su come il bambino dovrebbe dormire sono di natura culturale, non biologica…
Ma quando il piccolo dorme insieme ai genitori, generalmente dormono tutti meglio, perchè il suo risveglio viene immediatamente percepito dalla madre, che provvede all’accudimento in tempi brevi ristabilendo una condizione di rilassamento non alterata dal pianto prolungato che deriva dal sentirsi soli e dal senso di abbandono che ne consegue.
I benefici del sonno condiviso sono stati monitorati a lungo: dormendo insieme, i neonati hanno meno fasi prolungate di sonno profondo, quelle cioè in cui svegliarsi da situazioni di apnea o pause respiratorie (molto comuni nei neonati) diventerebbe molto più difficoltoso. I neonati più a rischio per SIDS sono quelli che mostrano incapacità di uscire da questo stato, quindi se ne deduce che dormire con la madre possa rappresentare un fattore protettivo importante.
Dai sei mesi ai due anni circa, la dentizione può disturbare in maniera importante il sonno del bambino: prendere atto di questa semplice condizione motiva i genitori a considerare con maggiore disponibilità e comprensione il suo disagio. Anche l’acquisizione di nuove abilità (gattonare, passare alla posizione eretta) può temporaneamente alterare i ritmi di sonno.
Insomma, per quanti stratagemmi possiamo inventare (a volte non privi di conseguenze a medio e lungo termine) non esistono circostanze normali per cui un bambino dovrebbe addormentarsi da solo, continuare a dormire da solo, consolarsi oppure tornare a dormire da solo dopo essersi svegliato…I piccoli umani esprimono semplicemente bisogni legittimi, e benchè l’accudimento risulti faticoso non possiamo cambiare la loro natura.
Il nostro modo di pensare, però, quello si… : )
Link di approfondimento:
http://www.nd.edu/~jmckenn1/lab/faq.html
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