“In nome della madre s’inaugura la vita” (Erri De Luca)
E’ un librino di 80 pagine, “In nome della madre”, scarno e semplice nella sua veste editoriale, con una emme in carattere ebraico sulla copertina, una “emme incinta” come la definisce l’autore; poi si inizia a leggere, e una ventata di musica in forma di parole investe la mente. Una donna come me si chiede come avrà fatto De Luca, un uomo, ad esprimere in maniera così intensa certe emozioni: avrà chiesto ad una donna-madre di spiegargliele o avrà provato ad immedesimarsi nella sua pelle e nel suo cervello? E’ dunque una riflessione sull’attesa, sull’ “aspettare un bimbo” che dalla notte dei tempi investe il corpo e la mente delle donne, ma in questo caso la donna è Maria, Miriàm, la Madre per eccellenza della tradizione biblica, la donna che ha concepito senza intervento umano a soli quindici anni (“Tu sei pasta cresciuta in me senza lievito d’uomo”), ha atteso il figlio e lo ha partorito in solitudine, forte soltanto della sapienza millenaria del suo corpo. Nella mia veste di ostetrica, come poteva non intrigarmi proprio il suo percorso di maternità, tantopiù non essendovi traccia storica di intervento di “levatrice” nella sua vicenda? Accanto a lei Giuseppe, Iosef, dolce e protettivo, che sa sostenerla nell’immane progetto a cui è destinata stando in disparte. E’ coraggiosa, la ragazza: “Signore, la tua frase rivolta a nostra madre Eva: in sforzo farai nascere i figli, non mi spaventa…Ce ne vorrà molto per staccarmi il bambino. Stiamo così bene in due in un corpo solo”. E ancora, una riflessione che ha attraversato la mente di ogni donna-madre o che sta per diventarlo : “Occupa tutto il mio spazio, non solo quello del grembo. Sta nei miei pensieri, nel mio respiro, odora il mondo attraverso il mio naso. Sta in tutte le fibre del mio corpo. Quando uscirà mi svuoterà, mi lascerà vuota come un guscio di noce. Vorrei che non nascesse mai”. Umanissima nelle sue reazioni, nei sentimenti, riesce persino a tranquillizzare sua madre: “Sarà la cosa più facile del mondo, madre mia… Una vita si annida, cresce e poi trova l’uscita. Basterò a me stessa, madre mia”. La gravidanza prosegue e Maria è costretta a intraprendere un lungo viaggio, Giuseppe al suo fianco; la sorte gli riserva una stalla per riparo, e lì si svolge il parto: “Sudavo…una contrazione e un rilassamento, spinta, rincorsa, spinta”, fino a quando appare la testolina, “l’ho avuta tra le mani, mi sono commossa, mi è scappato un singhiozzo…”.
Una nascita è qualcosa di misterioso e spettacolare, non può lasciare indifferenti, ha in sé tutta la magia della vita e il corpo di una donna è fatto per questo: “Il mio corpo fa da solo, esegue. Non l’ho istruito io”, è così che Maria riflette su ciò che è accaduto ed è così che bisognerebbe trattare un corpo di donna che sta per dare alla luce, con rispetto per la sua capacità, che esprime tutta la potenza del creato. Poi sopraggiunge la consapevolezza che questo figlio non sarà come tutti gli altri; Maria lo sapeva fin dall’inizio, ma ora arriva la resa dei conti: “Qui dentro siamo solo noi, un calore di bestie ci avvolge e noi siamo al riparo dal mondo fino all’alba. Poi entreranno e non sarai più mio”. In quel momento emerge potente l’umanità di Maria, il suo bisogno straziante che quel bambino sia soltanto uno fra tanti, “un cucciolo qualunque, anche un poco stupido, svogliato…”; perché se è vero che il suo destino è segnato, allora irrompe la consapevolezza che la vita glielo strapperà via…“Signore del mondo…fà solo che questo bambino sia nessuno nella tua storia…Sia per te un progetto accantonato, uno dei tuoi pensieri usciti di memoria”…
E’ assalita dal dubbio e dal terrore, dal pentimento bruciante di aver peccato di orgoglio nel gioire del fatto che proprio lei era stata prescelta per raggiungere un obiettivo sovrumano, poi ha un ripensamento, sa di dover tenere fede ad un patto, ridimensiona la sua ansia e chiede all’Immenso che almeno venga lasciato libero di vivere la sua vita fino ai trent’anni: “Ti ho promesso, prometti”. Alla fine, lo straniamento che prende una madre dopo aver generato la sua creatura ha a che fare con la malinconia: chi è passata attraverso questa esperienza lo conosce bene, è quello che fa versare qualche lacrima e non si sa bene perché. E’ lo stesso che fa dire a Maria “Che vuoto mi hai lasciato, che spazio inutile dentro di me deve imparare a chiudersi. Il mio corpo ha perso il centro, da adesso in poi noi siamo due staccati, che possono abbracciarsi e mai tornare una persona sola”. Ma per una donna qualunque, quello è anche il momento della vita che più somiglia alla felicità…